Il 25 aprile è stata, come tutti gli anni dal 1945, una giornata storica per l’Italia. Si festeggia la Liberazione dal Nazifascismo. Ogni anno la memoria palpita orgogliosa nelle vene di vecchie e nuove generazioni, unendole in un ideale fronte uman(itari)o nella condanna alla brutale dittatura perpetrata da Mussolini e Hitler. In molte case ancora, da nord a sud della Repubblica, si tramandano le storie dei “propri vecchi”. Uomini, donne e bambini che guardarono in faccia l’orrore, riuscendo a sopravvivere nelle condizioni più estreme. 
Fra loro ci fu anche il veneziano Mario Pozzana, scomparso pochi anni or sono, la cui eredità e memoria continua a rivivere nel figlio Roberto e nei tre nipoti.
 
Mario Pozzana era un giovane di appena 21 anni quando venne arruolato e spedito in guerra, nell’attuale Croazia, distaccato nella caserma di presidio e lontano dalla prima linea. 
Con l’Armistizio di Cassibile dell’8 settembre 1943 siglato dal neo-governo Badoglio che ratificava il cessate il fuoco contro le forze anglo-americane, le cose non migliorarono. Per i nazisti quella dichiarazione trasformò gli Italiani in nemici, o comunque in non-alleati che pertanto ne dovevano subire le conseguenze, Mario incluso. “La caserma venne subito occupata dai tedeschi” racconta Roberto Pozzana, figlio di Mario. “Per sua fortuna, in quanto ufficiale, godé di un trattamento di favore. Venne a ogni modo caricato su di un convoglio verso quei famigerati campi di lavoro ma all’epoca non si conosceva che cosa vi avvenisse (lo si scoprì il 27 gennaio 1945 quando l’Armata Rossa aprì i cancelli di Auschwitz, ndr). La sua destinazione fu il Nord Europa, presso un campo di smistamento in Olanda. Qui le condizioni non furono per niente facili. 
 
Si ammalò gravemente ai polmoni, riuscendo comunque a sopravvivere e fu così che venne spedito a lavorare in una fattoria nel sud della Germania. Lì la situazione cambiò. Lavorava molto, specie d’estate ma il cibo non gli mancava mai, inoltre né lui né un suo commilitone subirono mai violenze. Aveva imparato il tedesco. Credo che ciò lo avesse messo di buon occhio con il capo contadino”.
Una storia finita bene ma non si può dire lo stesso per tutti coloro passati sotto la graticola nazista. Furono decine di migliaia i cosiddetti “Imi – Internati Militari Italiani (Italienische Militär-Internierte)”. Una condizione molto pericolosa per tutti coloro che vennero etichettati come tali, poiché agli occhi di Hitler non andavano considerati come prigionieri bensì come internati militari e dunque non giuridicamente protetti dai diritti della Convenzione di Ginevra. Vennero catturati ovunque, Balcani inclusi, e impiegati coattivamente in vari settori: industria pesante, miniere e via via per lavori specializzati e non, incluso il campo agricolo. Ne morirono moltissimi, in parte per le condizioni e i maltrattamenti, in parte per i bombardamenti alleati. 
 
“Se mio padre non è morto e io sono nato, è stato tutto frutto del caso” continua Roberto nel suo racconto dalla propria abitazione a Venezia. “Sebbene i tedeschi fossero maniacali nel redigere i rapporti, la scelta di inviarlo in un posto piuttosto che un altro, fu del tutto casuale. La sua liberazione poi avvenne in modo molto naturale, con la progressiva conquista della Germania da parte degli Americani nel maggio-giugno ’45”. 
 
Anche a Venezia, quest’anno, si è celebrato il 72° anniversario della Festa del 25 aprile, o della Liberazione. Nel meno bellicoso terzo millennio, l’Europa sta attraversando un periodo molto difficile e complesso. Spinte secessioniste e populiste, terrorismo spacciato per guerra religiosa (o di civiltà) e correnti xenofobe sempre più minacciose, rischiano di minare le basi della convivenza e della democrazia. Ma 80 anni fa il panorama era ancor più drammatico. Il Vecchio Continente era reduce da conflitti infiniti, una prima devastante Guerra Mondiale e si stava apprestando a viverne una Seconda che avrebbe causato un’autentica ecatombe. 
 
“Abbiamo portato i nostri figli in Normandia, sui luoghi storici dello sbarco” racconta ancora Roberto. “Fa davvero impressione. Fin da bambini i miei figli sono sempre stati colpiti dalle storie del nonno. Camminando su quelle spiagge, le parole hanno trovato ancora più sostanza. Al giorno d’oggi tutti viviamo in un’Europa unita e senza confini. Allora non era così e ripensarci fa ancora più impressione”. 
 
Sono alle ultime battute con Roberto Pozzana quand’ecco passare Ludovica, la figlia maggiore di Roberto e di sua moglie Laura. La vedo uscire mentre si sta recando all’università. Lei, come suo padre, sono la prova esistente di come la Vita abbia saputo  trionfare sulla guerra. Parole sincere e veritiere si, oggi però non bastano più. Agli albori di un’epoca confusa e dalle inquietanti similitudini col passato, è tempo di imparare davvero dalla Storia perché le future generazioni non debbano più rischiare di scomparire dietro il filo spinato o sotto le bombe.

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