La Marcia del Perdono e della Pace ha segnato l’inizio della festa della Perdonanza Celestiniana. Ha preso le mosse dalla chiesetta santuario di San Pietro della Jenca. Il piccolo tempio, risalente al XIII secolo, caro alla memoria di Giovanni Paolo II, cui è dedicato, fu chiesa parrocchiale dell’antico omonimo castello. I successivi rimaneggiamenti nel portale e all’interno non ne hanno snaturato il fascino, ben riscoperto da un sapiente restauro degli ultimi decenni. La carovana ha fatto la sua prima sosta nella radura antistante la chiesetta a capanna di San Clemente, che una consolidata tradizione vuole antichissima e legata alla memoria dei primi cristiani, tanto da far ipotizzare la sua edificazione sopra una grotta creduta catacomba dei martiri.

L’occhio esperto nota la forma ogivale dell’elegante finestrella monolitica che si apre sul muro della piccola abside, carattere inconfondibile del primo gotico, che al pari dell’ampia finestra esistente sulla parete sinistra della vicina e sopra citata chiesetta di San Pietro della Jenca, denuncia la presenza di quella cultura cistercense che fu realtà dell’intero territorio del Gran Sasso a partire dal Milleduecento. Dopo una ulteriore breve sosta nel fontanile detto «La fonte dei tre olmi», nella campagna di Assergi, in prossimità di Grotta a Male, in una zona di notevole interesse archeologico che nei primi decenni dello scorso secolo fu oggetto di indagine da parte di Angelo Semeraro, geniale archeologo dilettante e poeta paganichese, siamo giunti nel borgo di Assergi, passando attraverso una porta dell’antico castello e costeggiando le mura bellamente restaurate.

Qui, ad attenderci, sullo sfondo di quella piazza dal sapore leopardiano, c’era la Chiesa di Santa Maria Assunta, con la sua luminosa facciata in levigata cortina a pietra concia, il portale finemente romanico, il leggiadro gotico rosone e il superbo campanile dalla doppia tessitura muraria. All’interno, dove un coraggioso restauro dei primi anni ‘70 del Novecento ha riportato alla luce un delicato pur se a tratti frammentario manto decorativo, si ammirano affreschi di pregio, databili tra il XIV e il primo XVI secolo, alcuni dei quali attribuiti a Francesco da Montereale e Saturnino Gatti, protagonisti di primo piano, insieme a Silvestro dell’Aquila e al grande Cola dell’Amatrice, del Rinascimento aquilano. All’interesse del visitatore si offre inoltre la cripta, con la sua scarna e mistica bellezza, autentico gioiello nel gioiello, antichissima, parlante il linguaggio misterioso del Medioevo. In essa, a fianco dell’altarino, poggiata sopra un interessante duecentesco pluteo di pietra e custodita all’interno di una cassetta di ferro, si scopre l’urna contenente le ossa di San Franco, ricalcata sull’opera, gelosamente conservata in altro luogo, di Giacomo di Paolo da Sulmona. Sull’altro lato, dolcemente adagiata su un cassone di noce che funge da reliquiario, ecco la statua lignea raffigurante una misteriosa donna coronata su cui è fiorito attraverso i secoli un’affascinante racconto popolare (regina del Cielo o regina della Terra?), diretta erede, quanto a stile scultoreo, della cosiddetta scuola francese “Ile de France”, e che potrebbe, da sola, giustificare un’intera sala museale.

A concludere il percorso lungo la valle del Raiale, con i suoi angoli di incontaminata bellezza, immancabile la visita alla chiesetta della Madonna d’Appari, autentica gemma incastonata nella roccia e lambita dalle acque di un gorgogliante ruscello. Nel cinquecentesco portale principale, la lunetta raffigura una Madonna col Bambino. Analogo affresco, ma più bello, compare sul portale laterale, a due passi dal ruscello. A poca distanza, sulla stessa parete, si scopre un antico disegno scolpito nella pietra dal significato profondo: un simbolo pagano dell’eterna lotta tra il bene e il male che la sapienza cristiana, secondo un collaudato costume, rivisita alla luce della Rivelazione.

La piccola fiabesca chiesa, monumento vivente della devozione popolare alla Vergine, riserva al visitatore, appena dentro, un’autentica e insospettata fantasmagoria di colori: dalle volte e dalle pareti emana un profluvio di luce degno di una chiesa rinascimentale fiorentina. Una suggestiva Crocifissione e scene della vita di Maria, forse opere di Francesco da Montereale, affrescano la volta del Presbiterio, mentre in fondo alla parete destra un pregevole dipinto raffigurante una Comunione agli apostoli nell’ultima cena – autorevolmente attribuita al figlio del suddetto Francesco – fa da sfondo ad un’edicola semicircolare con imbotte a cassettoni e archivolto riccamente modanato a ghirlande. Altri affreschi, sulla stessa parete, raffigurano Sant’Antonio e San Bernardino da Siena, molto popolare nelle chiese dell’Aquilano. In fondo alla parete di sinistra, vicino alla porta d’ingresso principale, si ammira l’unico dipinto ad olio presente nel piccolo tempio, una grande e bella tela di fine cinquecento ascritta al pittore aquilano Pompeo Mausonio: Madonna del Rosario, inquadrata nei 15 pannelli dei Misteri, che molto ricorda la Madonna di Pompei. Sulla controfacciata, completa la scena un monumentale ottocentesco organo a canne, tuttora funzionante. Di fronte a tanta bellezza si rimane letteralmente avvinti, e quasi non ci si staccherebbe da questo piccolo angolo dove sembra che natura, fede e poesia si siano date appuntamento.

Breve sosta di fronte alla Basilica di San Giustino, antichissima, edificata sull’antico sepolcro del santo cui è dedicata. Ricostruita compiutamente nel periodo romanico, con le sue tre navate, mostra, al pari della sua ancor più vetusta cripta, una scarna e severa bellezza che invita al raccoglimento. In fase di restauro e provvisoriamente chiusa al pubblico per motivi di sicurezza, ne abbiamo potuto pur sempre ammirare lo svettante torrione con campanile della facciata, impreziosito alla base da un’edicola con arco a volta sorretto da eleganti pilastrini tardo-rinascimentali e riproducente, sullo sfondo, un bell’affresco dedicato alla Trinità.

Infine l’ultima tappa di interesse culturale alla Basilica di Santa Giusta, antichissima anch’essa, ed edificata, analogamente alla chiesa di San Giustino, inglobando le antiche piccole basiliche ad corpus sorte sulle ancor più vetuste tombe dei martiri Giusta, Fiorenzo e Felice. Ne abbiamo ammirato la originalissima facciata, che per la ricchezza dei motivi scultorei in stile casauriense, il disegno a griglia delle colonnine e dei cornicioni, l’elegante portale ad arco falcato con colonne ed architrave stupendamente ornati, ne fanno un irripetibile capolavoro dell’architettura romanica abruzzese. Momentaneamente chiusa anch’essa al pubblico per motivi di statica, ne abbiamo potuto immaginare solo con gli occhi della mente l’interno, con la piatta parete di fondo dietro l’altare sfavillante di affreschi tardo-rinascimentali e le pareti laterali, ricche di pitture databili tra il XIII e XV secolo; mentre un ambone, a sinistra dell’altare per chi guarda, florido di sculture, casauriensi anch’esse, del XII secolo, poggia sopra un archivolto sotto il quale c’è l’accesso all’antica cripta, costituita da una monoaula con volte a crociera, e dove figura un altare abbellito da una statua lignea trecentesca raffigurante Santa Giusta.

L’illustrazione della chiesa di Santa Giusta, che ha dato il nome ad uno dei quarti dell’Aquila, ha offerto l’occasione per rievocare la singolare caratteristica urbanistica del capoluogo abruzzese, voluta sul finire del secolo XIII dal genio del capitano militare Lucchesino da Firenze, che, di concerto con il vescovo Nicola da Sinizzo, facendo tesoro dell’esperienza maturata in terra toscana, volle che all’Aquila i castelli fondatori, pur non smobilitando dai loro luoghi d’origine, serbassero una significativa traccia entro le mura della nuova urbe.

Siamo infine a L’Aquila, che mostra, evidenti, i segni della rinascita accanto alla stupenda Basilica di Collemaggio.

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