Poco tempo fa, rileggendo una pagina di giornale, ho trovato questo titolo: “La campagna elettorale cui stiamo assistendo…” (da: La panna montata e lo scandalo di Siena di E. Scalfari in la Repubblica).
Com’è evidente in questo te-sto, i letterati per dire: “al quale” o “alla quale”, continuano a dire “cui” senza la preposizione “a”. Come facevo anche io fino al diploma di maturità.
Gli altri – noi – invece diciamo “a cui”, aggiungendo la preposizione semplice al pronome relativo “cui” (nella sua forma monosillabica: la seconda).
Da ragazzi, a scuola, gli insegnanti erano molto severi nel correggerci questo “errore”. E giustamente. Ma allora era necessità adeguarsi. Infatti, dicevano che “cui” essendo dativo del pronome relativo (qui, quae, quod; dativo: cui) di per sé, già significa “al quale o alla quale”, e allora non c’è bisogno di riposizionare la preposizione “a” già presente (virtualmente!) nella parola cui. Sarebbe come dire – dicevano essi! – “a – al quale”. Ma allora, già a nove anni, i ragazzi destinati ad essere intellettuali e classe dirigente conoscevano, tutti, qualche rudimento di latino. Ma adesso?
Adesso invece, secondo me, stride più la forma originaria, quella che una volta sembrava corretta, cioè “cui” (senza preposizione), che non quella con la preposizione: “a cui”.
La forma espressiva “cui” poteva essere accettata almeno fino a quando il “cui” fosse stato riconosciuto da tutti come un “dativo”, cioè col valore di “al quale”. Almeno finché tutti i parlanti fossero stati in grado di riconoscere il segno e di usarlo correttamente.
Ma ora che il dativo non c’è più (come caso morfologico autonomo) se non nei pronomi personali? È vero che cui è un antico pronome latino (dativo singolare di qui, quae, quod); però chi lo riconosce?
Sarebbe riconoscibile se la lingua avesse conservato anche gli altri casi, o almeno un ablativo da contrapporre al dativo in maniera da stabilire una opposizione cui/quo, e utilizzare così la prima forma per il legame sintattico senza preposizione e la seconda per il legame preposizionale; ma visto che l’uso del cui si è esteso a tutte le situazioni di legami preposizionali (i cosiddetti casi obliqui. Vedi: di cui, per cui, da cui, a cui [moto], ecc.), non si capisce perché non si dovrebbe dire anche a cui (ex dativo).
Voglio concludere. Solo chi conosce il latino oggi può sapere che cui corrisponde al dativo singolare del pronome relativo qui, quae, quod, e che in italiano si traduce: al quale, alla quale. Ma gli altri?
Fortunatamente, nel corso della evoluzione linguistica, questo caso di opacità (in linguistica: non conoscenza dell’origine e del senso di una parola) ha già provveduto a selezionare “naturalmente” (attraverso il comportamento spontaneo dei parlanti) il segno “a cui” del codice-lingua, facendolo assurgere a dignità di forma standard.
E qui opportunamente voglio ricordare che la lingua è del po-polo che la parla, come diceva Gianni Rodari richiamando Lewis Carroll; non degli scrittori, né dei vocabolari, anche se i primi cercano di usarne il livello più alto e i secondi fanno del loro meglio per registrare tutte le varietà correnti in una data epoca, o in un determinato autore.
Perciò, non vale ciò che continuano a sostenere i puristi, e cioè che dire “a cui” è come dire “a al quale” ripetendo la preposizione “a”, già implicitamente contenuta nella forma cui. Chi oggi sarebbe in grado di cogliere la ridondanza (la ripetizione della a) morfo-semantica?
Tornando alla citazione, possiamo correggerla a modo nostro: “La campagna elettorale a cui stiamo assistendo …” , anche se qualcuno storcerà il naso.