Ha passato la vita a guardare le stelle ma con i piedi ben piantati per terra, e oggi osserva ancora con orgoglio la Luna. Perché nel 1969 c’era anche lui nell’enorme macchina tecnica che realizzò il sogno dell’uomo di mettere piede sul satellite della Terra.
Joseph  Novello, in pensione dal 2006, non ha perso l’entusiasmo per la cosmonautica e la fisica astrale. E quel 20 luglio di 50 anni fa, quando in Italia eravamo già al 21 luglio, se lo ricorda bene. Ricorda con emozione la celeberrima frase di Neil Armstrong, titubante sulla scaletta del Lem Eagle e quel piede sinistro poggiato sulla superficie gessosa della Luna, che segnava lo sbarco del primo uomo al mondo su un corpo extraterrestre. “Sarà un piccolo passo per un uomo, ma un gigantesco passo per l’umanità”.

Le parole dell’astronauta Armstrong, quel 20 luglio del 1969,  fermarono per qualche ora il fiato del Mondo e sancirono, con l’euforia globale, il successo del progetto Apollo.
“Ci sono stati molti italiani e italoamericani che contribuirono al successo dei progetti spaziali, e tra questi sicuramente vi era il mio amico Giovanni Scialdone, che realizzò un pannello per proteggere le astronavi dalle contaminazioni esterne quando queste sono in orbita, e un propulsore elettrico per variazioni di orbite e spostamenti nello spazio”.
Novello è forse una delle ultime memorie storiche di quella straordinaria avventura terminata nel 1972 con Apollo 17.

“Per le missioni Gemini e Apollo ho creato il programma per guidare le antenne usate nelle missioni Gemini e Apollo, dopodiché ho contribuito a disegnare il primo computer digitale per le navicelle spaziali”.
Residente a Washington D.C., Novello stringe orgogliosamente tra le mani il Certificato di Apprezzamento che la NASA gli ha conferito nel 1993 per aver contributo al successo della missione per la manutenzione del telescopio spaziale Hubble che era in orbita dal 1990.

Nato a Montazzoli (Chieti, Abruzzo) nel 1941, ripercorre con piacere la storia che vide arrivare la sua famiglia in terra americana. “I miei genitori, io e una delle mie sorelle arrivammo a Scotch Plains, N.J., nel maggio del 1955. I miei volevano riunirsi con mio nonno, già emigrato, e dare un futuro a me e mia sorella. Mio  padre lavorò inizialmente con miei zii, muratori come lui, e anche io iniziai con loro come manovale a 14 anni. Ricordo la mia prima impressione sugli Stati Uniti. Riguardava il clima: qui era molto più caldo e più umido di Montazzoli, paese da cui partimmo”.

L’ingegnere spiega che la scelta del piccolo paese ad ovest di New York City fu dovuta al fatto che lì risiedevano numerosi montazzolesi, cosa che in seguitò portò al gemellaggio tra le due municipalità. 
“A Scotch Plains c’erano  circa 100 famiglie emigrate da Montazzoli agli inizi del Novecento e tra loro vi erano le famiglie dei mie nonni Novello   e Mancini. Questa comunità diede vita alla Società di mutuo soccorso per  Montazzolesi e i miei parenti, la domenica pomeriggio, mi  portavano al club  farmi socializzare con altri emigrati di origine montazzolese.

Nelle scuole elementari conobbi molti amici di origine compaesana e sono orgoglioso di essere di origine Italiana, anche se con il passare del tempo mi sento più  italomericano. Tutta la mia famiglia risiede negli Stati Uniti, mia moglie ed io frequentiamo la chiesa di Holy Rosary in Washington D.C. e siamo membri dell’Abruzzo Molise Heritage Society (AMHS). Sono tornato dall’Abruzzo un mese fa.
Solitamente, con mia moglie Joann (di origine venete) vado a trovare i miei parenti a Montazzoli ogni quattro anni”.

La carriera nel campo spaziale ebbe inizio dopo il Master in ingegneria elettronica al New Jersey Institute of Technology nel 1965, con l’assunzione nella sede NASA del Goddard Space Flight Center a Greenbelt, nello stato del Maryland.
“Ho creato il programma per guidare le antenne usate nelle missioni Gemini e Apollo, dopodiché ho contribuito a disegnare il primo computer digitale per le navicelle spaziali. In seguito sono passato alle missioni spaziali per la manutenzione e riparazione del telescopio Hubble e quindi, prima di andare in pensione, sono stato capo progettista per gli strumenti di bordo per le missioni Astro-2”.

Novello ricorda con emozione  i  contributi  di diversi specialisti italiani che in pochi accostano al successo dell’Apollo ma che furono fondamentali per la conquista della Luna.

Gian Giuseppe Scialdone, nato a Vitulizio (Caserta, Campania) nel 1926, fu direttore del Centro Voli Aerospaziali Goddard della NASA e contribuì al progetto di un’astronave che potesse contenere i più sofisticati strumenti per il volo nello spazio. Il contributo italiano iniziò già con gli studi del professor Gaetano Crocco (nato a Napoli nel 1877) che nel 1951, dieci anni prima del volo di Jurij Gagarin, progettò un avveniristico vettore a stadi paralleli invece che sovrapposti. L’ingegnere aeronautico Francis Rogallo, nato nel 1912 in California ma con origini italiane, realizzò invece un paracadute per l’atterraggio morbido di veicoli e satelliti di ritorno dai voli spaziali Gemini e Apollo.

Antonio Ferri (nato a Norcia, Umbria, nel 1912) studiò per primo i motori ramjet e scramjet per velivoli prossimi ai 10.000 km/h, risolvendo i problemi termici di rientro delle capsule spaziali. Filippo Pagano, nato a Terrasini (Palermo) nel 1928, costruì la strumentazione di bordo della navicella che Neil Armstrong portò sul suolo lunare. Dario Antonucci, che oggi ha 95 anni e vive a Knoxville, Tennessee, era arrivato negli Stati Uniti a bordo di un transatlantico nel 1937 dalla Calabria, San Marco Argentano, in provincia di Cosenza, per la precisione. Guidò il team di 13 tecnici e 4 ingegneri che progettò il sistema che misurava e controllava tutti i parametri di bordo della Eagle.La prima permanenza sulla Luna durerà 2 ore,15 minuti e 12 secondi e segnerà l’apice del successo della NASA destinata a diventare per decenni il sogno professionale di molti. Sogno di cui fu protagonista di vertice Rocco Petrone, nato nel 1926 ad Amsterdam di New York ma originario di Sasso di Castalda (Potenza, Basilicata).

“Nei tanti anni passati in sala comandi, tutti mi chiedevano se fossi stato io a premere il bottone che ha portato l’uomo sulla Luna. Ho sempre ripetuto la risposta di Eisenhower: il merito è di tutti coloro che hanno preso parte all’impresa. Io mi sono limitato a controllare quello che facevano gli altri. Ma se la spedizione si fosse risolta in un disastro, la colpa sarebbe stata senz’altro del sottoscritto”.


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