“La tragedia sconosciuta degli Italiani di Crimea” scritto da Giulio Vigliotti e da Giulia Giacchetti Boiko è una delle testimonianze più recenti di una memoralistica dispersa dal tempo, come la storia.
Ne “La lingua dei pugliesi in Crimea” (1930-1940), oggi introvabile, furono pubblicate le traduzioni degli articoli scritti da Sismarev, grande studioso della comunità italiana in Crimea. A Kerc esiste la “Casa d’Amicizia Tavrika”, dove ogni associazione nazionale registrata della città ha una sua cameretta. È qui che i pochi italiani sopravvissuti e i loro discendenti si riuniscono per continuare la lotta per il proprio diritto all’italianità.
Dispersi nell’Europa che coccola le sue differenze e chiude gli occhi sulla fame di “italianità” di chi è stato ingiustamente cancellato dalla cittadinanza tricolore, loro non demordono!
Sono pochi e sono stanchi di promesse non mantenute. Sono italiani fino all’ultimo cromosoma, ma devono vivere con un passaporto diverso.
Amano l’Italia perché da lì partirono i loro avi, odiano l’Italia che si è dimenticata di loro e delle loro traversie. Sperano ancora, sperano flebilmente: la storia forse si ricorderà di loro prima che l’ultimo venga portato via dalla morte. Combatteranno per i loro diritti, finché avranno il fiato in gola.
Gli italiani emigrati in Crimea e deportati durante l’ultimo conflitto mondiale in Russia, Kazakhistan e Usbekistan, vengono viste dalle istituzioni italiane quasi con fastidio, nella speranza che il silenzio della morte porti via la voglia di battersi per un diritto negato dall’evidenza della Storia.
Quella degli italiani di Crimea è una storia dolorosa, segnata da ferite che stentano a chiudersi, nonostante la chiara volontà di disperdere nelle nebbie della storia le loro storie.
Sono italiani scomodi che vogliono vivere in Europa nel nome della loro italianità e delle loro tragedie, provocate semplicemente dalle scelte politiche e dalla coscienza di politici dal cuore miope.
Se oggi qualcuno cita la città di Caffa, probabilmente nessuno saprebbe ricordarne la collocazione e men che meno saprebbe ricordarne le origini. Eppure appartiene a una fetta gloriosa di storia italiana, questa città fondata sulle rive del Mar Nero dai sudditi della Repubblica di Ge-nova. Una città italiana in Crimea.
Caffa rappresentava un vivace angolo genovese sulle rive del Mar Morto. Della città genovese oggi rimangono i resti all’interno del perimetro urbano di Feodosia, ma proprio l’antica presenza marinara legittimò forse nel 1830 e nel 1870 le due ondate migratorie italiane.
A scegliere l’avventura in Crimea furono soprattutto agricoltori, marinai e addetti alla cantieristica navale e la città fulcro di tale spostamento divenne Kerc, costruita sullo stretto omonimo che congiunge il Mar Nero con il Mar d’Azov. Nel 1840, 30 famiglie italiane costruirono e consacrarono una chiesa cattolica romana (progettata dall’architetto Alessandro Digbi) la cui lapide commemorativa, scritta in italiano e latino, fu distrutta dal regime stalinista negli anni ’30 del Novecento.
Italiani provenienti da Molfetta, Trani, Bisceglie, Bari formarono una comunità stimata intorno alle duemila unità, rinnovando un legame che già si era creato nel XVI secolo, attraverso le migrazioni dalla Campania e dalla Liguria. E tra loro vi era perfino un nipote di Giuseppe Garibaldi, fucilato negli anni ’30.
Incoraggiati dal governo zarista che inviava emissari in Eu-ropa Occidentale, gli italiani si stabilirono anche a Simferopol a Feodosia e in altri porti del Mar Nero e del Mar d’Azov. Nei pri-mi del ‘900 essi ammontavano a 4000 unità, costituivano il 3% della popolazione, avevano anche una scuola elementare e media, un circolo ricreativo e la biblioteca. Una colonia unita e prospera dedita alle attività marittime nella flotta peschereccia o nella flotta del Mar Nero.
Una presenza scomoda per il regima stalinista che nel 1939 impose la cittadinanza sovietica agli emigranti italiani che ancora non erano rientrati in Italia. Qualcuno riuscì a fuggire, ma la maggior parte rimase bloccata in quella che sarebbe diventata una vera trappola politica. Per 2000 emigranti si aprirono le porte del kolkos “Sacco e Vanzetti”, nel quale arrivarono anche fuoriusciti antifascisti pronti a catechizzare la piccola comunità tricolore.
Tra essi figura Pietro Robotti, cognato di Togliatti. Fu proprio Robotti ad ottenere la chiusura della scuola e della Chiesa e l’espulsione del parroco italiano.
Nel gennaio 1942, dopo la “liberazione” di Kerch da parte dell’Armata Rossa tutti gli italiani, anche le famiglie miste, vennero deportate, dai lattanti ai vecchi. Costretti a radunarsi in sole due ore e portando con sé solo otto chili a testa di effetti personali, furono concentrati a Kamysch Burun, sobborgo di Kerch e imbarcati nelle stive per la traversata dello stretto, poi in vagoni piombati fino a Bakù, fatti attraversare il Mar Caspio, poi ancora in vagoni piombati fino in Kazakistan. Alcuni (come la famiglia De Martino) arrivarono a Kolyma sul Mar Glaciale Artico, altri nell’arcipelago delle Solovki (come ad esempio Giacomo Pergolo e Bartolomeo Evangelista).
Metà di loro (soprattutto vecchie e bambini) morirà durante il tragitto di stenti, di fame, per i maltrattamenti.
Un altro terzo muore in Kazakistan per il freddo e per la fame. E tutti spariscono dalla storia italiana…inghiottiti dai gulag o da città come Karaganda, da cui era impossibile entrare e uscire senza permessi speciali.
La morte di Stalin permise a qualcuno di tornare, ma la libertà arrivò solo con Krusciov: dei 4000 emigranti stivati nei treni piombati soltanto 200 rientrano in Crimea per constatare che tutti i loro averi erano stati confiscati dallo Stato. All’ultimo censimento 365 persone in Kazakistan hanno dichiarato la nazionalità italiana. Altri si sono sparsi in Russia e perfino in Uzbekistan.
Agli italiani di Crimea furono sottratti tutti i documenti, compresi i passaporti italiani, e neanche la caduta del comunismo è riuscita ad alleviare le sofferenze di questa diaspora volutamente dimenticata da tutti.
L’ambasciata italiana di Kiev non riconosce loro neanche una risposta alle lettere accorate per tornare in possesso dell’antica cittadinanza e per veder riconosciuto lo status di deportato politico.
A ricordare il sacrificio degli italiani in Crimea c’è una lapide posta nel Parco Valsesia di Milano a cura del Comitato della Foresta mondiale dei Giusti. Nessuna lapide ricorda le famiglie pugliesi emigrate in Crimea e dissolte per mano di Stalin.
E nessun governo vuole riconoscere ufficialmente la deportazione degli italiani di Crimea (al contrario di quanto accade per i Tartari, i tedeschi, i Bulgari, gli Armeni e i Greci), permettendo così ai discendenti un riconoscimento innanzitutto etico e poi economico per le sofferenze subite senza nessuna colpa al di fuori dell’italianità.