Era il marzo del 1947 e il suo avversario si chiamava Lee Epperson: l’irlandese resistette tre riprese prima di cadere, primo di una lunga serie, sotto i pugni devastanti di uno sconosciuto pugile italo-americano, al primo incontro professionistico. Per l’anagrafe americana il nome di questo pugile era Rocco Marchegiano ma negli annali sportivi rimase impresso un nome da leggenda: Rocky Marciano.
Tutto questo non lo poteva certo prevedere un altro Rocco, il nonno del futuro campione. Quel Rocco Marchegiano era partito da un piccolo paese della provincia di Chieti, a due passi dal capoluogo teatino e dalla futura città costiera di Pescara. Erano gli ultimi anni dell’Ottocento, gli anni del grande flusso migratorio italiano, gli anni della spoliazione umana del Mezzogiorno, strappato ai Borboni e lasciato a se stesso in quelle stesse regioni che già sotto la corona delle due Sicilie erano soltanto terre di confine da sfruttare e controllare militarmente. In quegli anni in cui l’Abruzzo perse la gran parte delle sue migliori braccia, anche il nonno di Rocky intraprese il grande viaggio in cerca di uno spicchio di felicità. Fu assegnato, insieme ad altri migranti, alla cittadina di Brockton, seimila residenti nelle immediate vicinanze di Boston.
Siamo nel Massachussetts, in una piccola comunità del Nord industrializzato; gli spazi del West qui sono soltanto cartoline e racconti e su tutto imperversa il lavoro, il duro lavoro. Ma è già tanto per chi ha lasciato la miseria alle sue spalle. La famiglia Marchegiano visse con dignità in questo piccolo centro americano e a Brockston nacque il 1 settembre del 1923 il nipote di Rocco, quel Rocco Francesco destinato a diventare un mito. Figlio di Pierino e Pasqualina, il piccolo Rocco frequentò soltanto per qualche anno le scuole; i soldi non bastavano: la famiglia già sopportava l’invalidità del padre, reduce sfortunato dalle trincee della prima guerra mondiale. Costretto a ripiegare sul lavoro di ciabattino, dovette accudire sei figli, il primo dei quali fu proprio il futuro pugile. Rocky visse la sua infanzia come ogni piccolo italiano dipinto dall’oleografia americana: prima strillone di giornale, poi sguattero di albergo, infine camionista. Ma cresceva forte e robusto. Con un fisico adatto agli sport faticosi. Questo era quello che pensò lo zio materno, tale John Picciuto. Fu lui a rendersi conto delle potenzialità atletiche del nipote e Rocky non lo deluse. Inviato a sua volta in Europa per partecipare alla guerra, nel 1943 Rocco Marchegiano, con il soprannome di Rocky Marc, disputò il suo primo incontro. Dimostrò subito la sua più grande dote, quella di saper incassare i pugni dell’avversario senza cedere di un passo. Tornato in America iniziò la carriera pugilistica nelle riunioni periferiche. Erano gli anni del grande boom per questo sport, con il pubblico affascinato letteralmente dalla brutale forza fisica dei suoi protagonisti. In questo mondo, il giovane abruzzese non stentò ad affermarsi.
Il ragazzo picchiava, secondo i critici, come un fabbro, comunque picchiava meglio dell’avversario vincendo le sue piccole battaglie sportive. Il primo a cadere fu appunto l’irlandese Lee Epperson: di fronte c’erano due rappresentanti dell’emigrazione americana, due comunità in costante contrapposizione nella lotta per l’affermazione sociale.
Il successo di Rocky fece subito scalpore, anche per la rapidità dell’ascesa. Rocky diventa quasi subito il “distruttore italo-americano”. Nella carriera di Rocco, diventato per tutti Rocky Marciano, iniziano a sfilare avversari italoamericani. Gil Cardione, Artie Donato, Tommy Di Giorgio, Phil Muscato, Carmine Vingo, Rolando La Starza, Gino Buonvino: questi nomi la dicono lunga su quello che rappresentava la boxe per gli italo-americani nell’immediato dopoguerra. Fecero epoca soprattutto gli incontri con Rolando La Starza, vere e proprie battaglie tra colossi muscolari.
Il successo irrise sempre a Rocky che divenne, il 2 settembre 1952, campione del mondo. A Philadelphia, davanti a 45 mila persone, battè con il suo solito metodo (picchiando come un fabbro!) Je Walcott, un avversario che aveva cercato di evitare l’incontro fino all’ultimo! Fu il trionfo. Il padre Pierino e la madre Pasqualina assaporarono per primi il dolce calice del successo. Vennero letteralmente subbissati di affetto dalla comunità italiana, dalla stampa e dai fotografi. In Abruzzo, nell’unico bar di Ripa Teatina, di proprietà dello zio, si ripeterono le stesse scene di entusiasmo e si attendeva con eccitazione la visita del grande pugile. In America invece Rocky divenne non solo il simbolo di riscatto della comunità italiana, ma anche il ritorno alla gloria dell’atleta bianco, fino ad allora costantemente battuto dai pugili di colore. E il ragazzo non deluse difendendo dal 1952 al 1955 senza problemi la sua corona di peso massimo. Chiuse la sua attività sportiva a soli 32 anni, praticamente imbattuto in quarantanove incontri disputati. Aveva raggiunto l’agiatezza economica e aveva investito i suoi guadagni con oculatezza.
Iniziava così per Rocky Marciano un’altra sfida, quella dell’imprenditore in cerca di successo. E anche qui il successo arrise all’abruzzese. Stabilitosi in Florida, Marciano intraprese un’attività di produzione e spedizione alimentare; i prodotti arrivavano dalle tenute di terra acquistate in Virginia e in Florida con i soldi della boxe! La Rocky Marciano Enterprises impaccava e distribuiva patate, aglio, pomodori, i prodotti simbolo della comunità italiana, rendendo l’ex pugile ancora più felice del successo sportivo. Dal 1959 al 1969 Rocky tornò spessissimo in Italia e soprattutto in Abruzzo, nella “sua” Ripa Teatina. Il sogno però terminò a soli 45 anni, e in modo tragico. Rocky perse la vita schiantandosi con il suo Cessna, mentre viaggiava da Chicago a Des Moines.
Lasciò dietro di sé l’alone del mito. Il cinema lo aveva già chiamato ma Rocky, a differenza di altri pugili famosi, non legò con il mondo dorato della celluloide. Amava la famiglia e lo dichiarò: era quella la sua miniera d’oro e nulla poté cambiare le convinzioni ferreamente tradizionali. Neanche la prospettiva di lauti guadagni. Prese le distanze anche dall’unico film dedicato alla sua vita e interpretato da attori italo-americani (tra cui il bravissimo Vincent Gardenia).
La morte fece crescere a dismisura il mito sportivo e nel 1970 arrivò un successo postumo: in un match di simulazione al computer, organizzato per mettere a confronto i due più grandi pesi massimi della storia della boxe, il grande atleta abruzzese batté Cassius Clay, altro protagonista assoluto di questo sport. Per tutti i fan dell’italo-americano questo fu il 50° incontro vinto dall’indimenticato Rocky Marciano.