“La Prima guerra mondiale, gli arditi e Vittorio Veneto tra memoria e storia”. È il titolo di un convegno che si è svolto a palazzo dei Priori, a Perugia, in occasione del centenario della fine del conflitto globale avvenuto tra il 1915 e il 1918. “L’intervento americano nella Grande Guerra – ha ricordato Alberto Stramaccioni, docente dell’Università per Stranieri di Perugia – è un tema poco studiato, ma è rilevante dal punto di vista storico”.
Ha ricordato così la neutralità statunitense mantenuta, grazie alla politica isolazionista dettata dalla Dottrina Monroe, fino all’affondamento, da parte di un sommergibile tedesco, del transatlantico britannico Lusitania. Il tragico episodio ha dato il via, il 6 aprile 1917, a un appoggio più concreto degli Usa ai propri alleati, sancendo quindi ufficialmente l’entrata della Casa Bianca nelle ostilità a fianco di Roma, Parigi e Londra. Il docente ha posto in luce i risultati, raggiunti dai soldati d’oltreoceano, mediante la decisione di bloccare i rifornimenti alimentari e bellici delle truppe di Berlino, operando una vera e propria “asfissia logistica”. La strategia adottata è risultata tra le concause determinanti ai fini della conclusione delle operazioni, concretizzata il 4 novembre 1918, nei campi di battaglia. Le difficoltà erano molto forti, in quegli anni, anche in Italia nonostante la penisola fosse tra le potenze vincitrici del gruppo della triplice Intesa. Il risultato favorevole, degno di nota, è stato conseguito anche grazie al ruolo importante svolto dai Carabinieri.
Il colonnello Alessandro della Nebbia, Capo Ufficio Storico del Comando Generale dell’Arma, ha richiamato la nascita, nel maggio 1915, del primo reggimento e della sezione della polizia militare. I componenti vengono ricordati per la vittoria ottenuta in occasione dell’assalto al monte Podgora e per la medaglia d’oro, al valore militare, assegnata con il Decreto Regio del 1920. Le mansioni ricoperte dai membri riguardavano inoltre lo svolgimento di servizi all’estero, la direzione dei soccorsi dei feriti, il mantenimento dell’ordine pubblico in patria nei territori minacciati dal malcontento popolare, la sorveglianza relativa agli obiettivi sensibili, ai militari in licenza e ai pacchi di aiuti distribuiti alle famiglie più indigenti. Una componente sconosciuta dell’esercito dell’epoca era quella degli arditi.
Roberto Roseano, autore del premiato romanzo storico “L’Ardito”, ha fornito dettagli su questi reparti d’assalto, nati durante la Prima guerra mondiale, col compito di “rompere il fronte offensivo”. Il loro addestramento quotidiano, personale e collettivo, durava un paio di settimane. “I bocciati – ha puntualizzato lo studioso – venivano rimandati ai corpi di provenienza”, mentre i promossi ricevevano la divisa da indossare. Usavano mitragliatrici, lanciafiamme, cannoni, pugnali, fumogeni e bombe a mano contenenti “schegge molto piccole che non erano mortali”. Le ultime due tipologie di mezzi servivano solo per confondere il nemico, innescando con lui più facilmente una lotta corpo a corpo. Gli arditi hanno partecipato a diverse battaglie, tra cui quella sul monte San Gabriele e di Caporetto. Il governo aveva deciso di sciogliere i reparti, nei primi anni’ 20, per la possibile entrata in realtà estremiste che minacciavano le istituzioni, perché erano cessate le situazioni di emergenza che richiedevano l’attuazione degli assalti e poichè non esistevano capi carismatici in grado di riformare i gruppi.
Secondo il Colonnello Riccardo Caimmi, Cultore di Storia moderna presso il dipartimento di Lettere dell’ateneo del capoluogo umbro, le gerarchie militari non gradivano la politicizzazione di queste parti dell’esercito. L’esperto ha sottolineato, citando Salvatore Farina, che gli arditi erano nati “sulla base di un’onda emotiva causata dalla sconfitta di Caporetto” e l’impostazione delle loro azioni era ispirata ai modelli delle “truppe austro – ungariche e di quelle tedesche”.