Gerardo Balestrieri è nato a Remscheld in Germania ma le origini sono italiane, tanto che è ritornato a vivere nel Bel Paese, inizialmente in Irpinia ad Aquilonia Carbonara poi Napoli e Venezia. 
 
In Irpinia, dai nonni e dagli zii, per qualche anno ha studiato pianoforte prima di essere catapultato a dodici anni in un’orchestra di “Non solo Liscio”, passando da una sagra a un matrimonio come se niente fosse. Successivamente è giunto a Napoli, tra miti, mare, colori, poesia e musiche della città che lo ha formato e sente più sua.
 
“Canzoni nascoste” è il suo quinto album, una raccolta di dodici pezzi scritti da tempo e mai pubblicati, in perfetto e casuale equilibrio tra tonalità maggiore e minori. 
Il disco è entrato tra i finalisti per il Premio Tenco 2016, nella sezione più ambita e difficile: miglior album in assoluto. Il riconoscimento è il più prestigioso della musica italiana. Le targhe sono assegnate da una giuria composta da oltre 230 giornalisti (di gran lunga la più vasta e rappresentativa in Italia in campo musicale), che in questa prima fase lo ha inserito fra i dischi candidati nelle cinque sezioni.
 
Qualche anno fa hai girato la California in tour, dove ti sei esibito?
Nel 2009 ho avuto la fortuna di fare un lungo tour in California in compagnia del violinista Fabrice Martinez e della sua band. Da San Diego alle montagne del Nord, da East Hollywood a Truckee fino a Santa Cruz, Los Angeles, Berkley, Big Sur, Arcata, Caspar e così via. Ho girato tutta la California presentando le mie canzoni e qualche omaggio. San Francisco per me è la città più bella. Tour intensissimo, si viaggiava senza sosta, distanze infinite e tanti chilometri su strada. Ho capito meglio il rapporto tra gli americani e la benzina.
 
Pubblico calorosissimo e molto sensibile. Attento, scatenato, accogliente e ospitale. Ho fatto tutta la tournée con un dito steccato, lasciato tra il furgone e la sua portiera che qualcuno ha chiuso nella nostra terza notte americana. E lì ho capito anche quanto costa andare da un dottore, non sarebbe bastato l’incasso per farmi curare. 
 
“Canzoni nascoste” si apre con “Les travailleurs de la nuite”, ladri gentili e burloni in stile belle epoque…
“Les Travailleurs de la Nuit” fa parte di un concept album dedicato al vero ladro gentiluomo che ispirò Maurice Le Blanc per il suo Arsenio Lupin. È la storia di un incontro fuori al caffè, la prosecuzione di Rouen, brano inserito nell’album “Canzoni al Crocicchio”. Due insoliti e ignoti lavoratori della notte. 
 
“Son Snob” (libera traduzione di “Je suis snob” di Boris Vian) ti entra nella testa e non esce più… ma veramente quando morirai vorrai la tomba firmata da Dior?
Mi son divertito tantissimo a tradurre liberamente Boris Vian, tanto che ne ho fatto un album ancora inedito. Giocare coi suoi giochi di parole e metterci anche del mio. Ho un amico che assomiglia tanto al personaggio della canzone. Aveva anche una Jaguar e non va mai al mare in agosto…
 
“Garofano e cannella”, che s’ispira a Gabriella di Jorge Amado, ci riporta alla cultura e alla società del Cacao, tra dolci e lamenti, poesia, fiele, brasato d’argento e amore…
Tra le pagine del libro ho scorto una certa musicalità in movimento: nelle parole e nella storia stessa. Leggendo vedevo Gabriella camminare, cantare e ballare. La vedevo patire, amare e pronta ad agire. Contro il colonnello di turno, contro lo sfruttamento dell’essere umano e della donna. Cercando in musica il nero della pelle e il bianco del barocco.
 
“Tom is waiting for” e “Il cenone del mondo”, quanto ami contaminare il blues?
Scrivo blues e non me ne accorgo. A volte penso siano “solo” dei valzer, come nel caso de “Il gusto nel niente e nel sorridere”, dei tanghi o dei lenti fox trot (Canzone al Crocicchio). In Alta Irpinia passavo le giornate in un camion dell’immondizia che andava in giro per il paese a raccoglierla per poi scaricarla alla “Rupe dei Signori “. Il blues è nato lì dal suono del motore e dal rumore del rimorchio, dalla compagnia di mio zio con cui sono in parte cresciuto. Dall’immondizia raccolta in paese e poi buttata dove un tempo avevano dirupato il latifondo. Una metafora della vita in scala pentatonica.
 
Jazz, swing, bossanova, blues, chansonnier français sono alcune delle etichette con cui è classificata la tua musica, sino a far saltare il tavolo con il liscio/punk di Rosamunda. È questo che intendi per musica apolide?
Con l’album di sole cover, in stile punk-hard core, che uscirà l’anno prossimo mi auguro di far saltare oltre al tavolo, l’intero palazzo. La parola apolide la uso per definire in sintesi me stesso e considerate le vicissitudini, non potrei certo scrivere d’altro. È così anche per la musica. Ma scrivere di musica, come diceva il poeta, è un po’ come danzare di architettura. Non ho uno stile unico, come si fa tra l’altro a suonare solo quello o quell’altro? Per me è inconcepibile e non è neanche musica. È un po’ come timbrare un cartellino.
 
Per “Un turco napoletano a Venezia” ti sei valso di musicisti quali gli Arif Azerturk Ensemble di Istanbul, rivisitando i classici napoletani…
È stato un progetto molto stimolante: registrare canzoni napoletane con musicisti e strumenti mediorientali. Canzoni come “Scetate”, “Tammurriata Nera”, “Maruzzella” che vestivano benissimo sonorità apparentemente un po’ distanti ma in realtà tanto vicine. I mediorientali per esempio parlano napoletano ovviamente meglio di un trevigiano.
 
Più volte finalista al Tenco, sarà questa la volta buona?
I miei dischi sono arrivati sempre secondi, un po’ come Toto Cutugno a Sanremo. Quest’anno “Canzoni nascoste”, è stato selezionato tra i migliori cinquanta nella sezione più difficile: miglior disco in assoluto. Nell’attesa, dopo la semina, piovono ottime recensioni che fanno ben pensare per il raccolto. 
 

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