(Ph Mike Greer da Pexels)

Tra un crisantemo, un gladiolo, un tulipano o una rosa ecco festeggiato ancora un altro anno il 2 novembre, giornata dedicata ai cari estinti.

Sì, festeggiare, perché a Palermo e solo a Palermo i morti si festeggiano, non si onorano o rimpiangono. È noto il rapporto che i palermitani hanno con la morte, e i “Cappuccini” ne sono la dimostrazione – scusando l’ossimoro – vivente.
Sono, infatti, circa ottomila i cadaveri – eccellenti e non – (parafrasando il titolo del film di Francesco Rosi) che fanno bella mostra di sé proprio nel Convento dei Cappuccini nella parte alta del capoluogo siciliano.
Un tempo, addirittura, chi non aveva tombe su cui portare dei fiori e recitare una preghiera, si recava ai Cappuccini e riordinava i vestiti delle mummie lì esposte. Macabro rituale, si potrebbe dire e saremmo d’accordo, ma questa vecchia usanza (ormai dismessa) la dice lunga sulla considerazione in cui i morti vengono tenuti in Sicilia. Anzi, più che i morti, la morte.
È quasi una sfida, dunque, questa nei confronti dell’al di là? È voler far credere di non temerlo?
Molti storici e psicologi si sono interrogati su questo argomento ma risposte certe, ancora nessuna.
Anche i Romani, però, tenevano in grande considerazione i loro defunti e li avevano eletti a protettori della casa e del focolare domestico. E gli Egiziani apparecchiavano le tombe affinché il defunto vivesse un’altra volta in un’altra vita.
C’è, dunque, un’antica tradizione che non accetta la morte come perenne e definitivo distacco dalla vita, anzi celebrarla è dare una continuità quasi infinita, una sorta di eternità, in barba a Caronte,  sulla terra.
E siccome è una festa, a Palermo, nella notte tra il giorno 1 e il giorno 2 di novembre, i morti regalano giocattoli e dolciumi ai bimbi – nella fattispecie ai nipoti – che li troveranno dopo averli cercati nei luoghi più nascosti della casa, con gioia, la mattina del giorno dedicato proprio alla commemorazione dei defunti.
In fondo, è come ridare loro la vita. Ma guai ai bimbi che sono stati troppo monelli, perché i defunti verranno nottetempo a grattare loro i piedi.
Ecco perché, secondo la tradizione, nella notte tra l’1 e il 2, le grattugie di casa vengono rigorosamente nascoste alla vista dei visitatori notturni.
Consolle, computer, telefoni cellulari, capi d’abbigliamento possibilmente griffati sostituiscono, purtroppo, oggi i giocattoli di un tempo: bambole in crinoline, scimmiette che battono piattini di latta girando su se stesse, trottole, marionette, pistole a tamburo (per i novelli Buffalo Bill), pattini a rotelle, tricicli, monopattini, cavallucci a dondolo.
I frutti di martorana, almeno loro, non sono cambiati. Addolciranno ancor di più il loro ricordo fichi d’india, albicocche, ciliegie, banane, fragole, castagne, mele, mandarini tutti di marzapane e per questo frutti al di là delle stagioni, così come li vollero sullo stesso albero le monache del convento palermitano della Martorana, da cui prese il nome l’impasto di cui sono fatti.
La “Pupa di cena” (cena era il nome dello zucchero fuso di cui è composta), un tempo riproduzione artistica dei personaggi della “Chanson de geste”, oggi è cambiata anch’essa e sono gli eroi dei cartoni animati a rappresentare una tradizione che nulla ha a che vedere con il territorio isolano e i suoi personaggi dell’Opera dei Pupi – gloria di un antico teatro popolare.
Molte bancarelle per la vendita di giocattoli e dolcetti sono sparse in vari quartieri della città, ma non soltanto a Palermo.
In tutta la Sicilia è ancora viva la tradizione di regalare giocattoli ai bambini e la data del 2 novembre segnava, sino alla prima metà del secolo scorso la vera ricorrenza siciliana che in seguito è stata sostituita dal nordico Natale, occasione per scambiarsi dei regali. Oltre ai frutti di martorana nelle pasticcerie si possono trovare – magari diversificati tra le città dell’isola – le “ossa di morti”, biscotti che per la loro forma possono ricordare alcune parti dello scheletro umano.
Non mancano i biscotti “tetù e teio” in pasta di taralli ricoperti di glassa bianca alcuni, di polvere di cacao altri, così da avere un’alternanza di colore chiaro e scuro. La traduzione dal siciliano all’italiano recita così: “tieni tu e tengo io” e sta ad indicare che la loro bontà “costringe” i bambini – golosi consumatori –  a goderne fino all’ultima briciola tra un “uno lo prendo io e un altro lo prendi tu”.
Per fare felici gli appassionati del salato, non mancano i cesti colmi di frutta secca e l’immancabile “vastedda” (focaccia) in nome della quale a Capaci, a pochi chilometri da Palermo, è addirittura istituita una sagra.
È una sorta di pane non lievitato condito con olio rigorosamente d’oliva, sale e pepe e, solo da alcuni anni, arricchito pure con acciughe e caciocavallo (formaggio piccante). Chi ne mangia riceverà fortuna, pace e ricchezza.
Un tempo, poiché sulle tombe ad onorare i defunti e anche a “conversare” con loro si impiegava un’intera giornata, la vastedda era il pasto ideale per sostenersi durante la lunga sosta al cimitero.
In fondo, il cibo da sempre è legato ai morti, tant’è che nei culti pagani, non soltanto perché si arriva anche ai nostri giorni, in caso di lutto, i parenti prossimi e i buoni amici e vicini di casa, offrono il “consulu siciliano” cioè il pranzo a tumulazione av-venuta ai parenti del defunto.
Sarà forse che le guerre oggi non si combattono più con i tradizionali fucili e le pistole, ma da qualche anno non si sentono più le scorribande che i bambini compivano per le strade al suono dei bang bang delle loro pistole giocattolo.
Fortunatamente, almeno finora, non sono state trasformate in giocattolo le armi più pericolose e micidiali. Ora i ragazzi le guerre le fanno al computer!
A noi la festa dei morti piace celebrarla con una interessante visita al Museo Etnografico siciliano Giuseppe Pitrè e più particolarmente alla Cappella di Veneziano Marvuglia, dove in occasione di questa ricorrenza si tiene la mostra “Giuochi e Balocchi”.
In esposizione cinquanta, circa, dei duecentocinquanta esemplari della sezione giuochi fanciul-leschi del Museo, tutti della seconda metà dell’Ottocento e dei primi del Novecento.
Si possono ammirare innocui soldatini, macchinine, tamburelli, bambole di panno, case delle bambole con mobili in miniatura, trottole (tra strùmmuli e firrialora), strumenti musicali e altro ancora.
Un tuffo tra i balocchi dell’infanzia di vecchie generazioni ma con la nostalgia che leghi il presente al passato, come appunto la tradizionale “festa dei morti” vuole.

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