Molto spesso il divertimento di guardare un quiz televisivo è quello di scoprire fatti nuovi, oppure di ricordare fatti dimenticati. Così, un quiz mi ha fatto ricordare un avvenimento importante che riconosce il contributo degli emigrati italiani in Brasile.
 
 Il 18 novembre del 2014 il ministro brasiliano della cultura ha riconosciuto ufficialmente il “Talian”, cioè il dialetto veneto-brasiliano, come “patrimonio culturale” di quel paese. Questo fatto non è solo un riconoscimento prestigioso per i nostri emigrati e dunque per il Belpaese, ma fornisce anche la prova del ruolo degli immigrati nello sviluppo dei loro nuovi Paesi di residenza.
 Per coincidenza qualche ora dopo, un altro canale ha trasmesso il film classico “Il Padrino” di Francis Ford Coppola che probabilmente è il film più emblematico di come gli immigrati diano contributi importanti sia nel bene che nel male, in questo caso negli Stati Uniti. Un film che, nella sua versione originale in lingua inglese, senza dubbio nel futuro sarà prova di una fase importante della Storia di quel Paese.
 
Per chi vuole mettere alla prova il proprio inglese, vale la pena vedere questo film in lingua originale perché fa capire in modo esemplare i cambiamenti avvenuti non solo nella lingua italiana, ma anche nell’inglese. Infatti, il seguito de “Il Padrino 2”, non fa altro che rinforzare queste prove.   
Scena dopo scena il linguaggio riflette la miscela delle due culture. Purtroppo nel doppiaggio del film è impossibile tradurre per intero questi cambi e mutazioni di parole ed espressioni. 
 
Per esempio, nella scena del primo film del pestaggio di Michele Corleone da parte del capitano della polizia, si perde la serie di parole razziste e le bestemmie utilizzate dal poliziotto corrotto contro il figlio del Padrino e come alcune di queste parole siano di chiara origine italiana. Nel libro originale di Mario Puzo questo linguaggio è ancora più marcato che nel film.
È una realtà ancora validissima non solo nei film, ma soprattutto nella vita vera. 
 
Per noi figli di emigrati, nel momento stesso in cui apriamo bocca, ci facciamo conoscere perché il nostro accento, il modo di parlare e la padronanza o meno della lingua italiana, sono tutti segni visibili d’essere nato e cresciuto all’estero. Ci vuole poco per capire che è difficile, per una persona cresciuta in un Paese, imparare perfettamente la lingua di un altro Paese. Quasi sempre è anche la prima lezione del nostro viaggio di ritorno in Italia: ci rendiamo conto di non capire benissimo nemmeno i nostri parenti italiani e di non parlare davvero bene la lingua dei nostri nonni.
 
Questa consapevolezza fa parte della nostra crescita e per alcuni di noi diventa il motivo per cui vogliamo sapere di più del nostro passato. Però dobbiamo riconoscere che questi cambiamenti linguistici non sono a senso unico e non si limitano alla sola lingua italiana.
 
In Australia, ad esempio, esiste una parola nuova: “parmi”. Non  è altro che il soprannome dato a un piatto di origine italiana, la “parmigiana”, ma che ha poco in comune con le melanzane alla parmigiana, appunto, che piace a tanti. Questo piatto consiste in una cotoletta, sia di manzo che di pollo e di solito di grandi dimensioni, sulla quale si mette una fetta di prosciutto cotto, salsa e formaggio che viene riscaldata sotto una griglia prima di essere servita, quasi sempre con una grandissima porzione di patate fritte. Il piatto è diventato uno dei preferiti degli australiani e ora è spesso il piatto forte dei pub australiani. Quasi nessuno degli australiani che lo mangia regolarmente sa che il piatto non è nato in Italia.
 
Allo stesso modo in Inghilterra il “chicken tikka masala”, di origine indiana, ma in una forma sconosciuta in quel Paese, è diventato il piatto più popolare di fast food. E così accade in molti Paesi dove le varie comunità immigrate hanno fatto sentire la loro presenza.
 
Chi viaggia sul social media e vuole fare un giro del mondo di queste comunità può facilmente fare ricerche di pagine di queste comunità in tutti i continenti. In pochi minuti vedrebbe come ogni comunità ha tenuto aspetti importati delle proprie origini, ma come anche ciascuna di loro ha cambiato il proprio carattere, quasi sempre senza capire d’aver creato culture nuove che mettono insieme aspetti diversi dei Paesi di origine e di residenza.
 
Uno dei motivi del successo dei film di Coppola, come anche di film come “Il mio grosso, grasso matrimonio greco” di Joel Zwick sta proprio nel fatto che esiste un pubblico internazionale che si riconosce in molti aspetti dei personaggi sullo schermo. 
 
Nel caso di questo ultimo film, non bisogna essere greco per capire, apprezzare e soprattutto ridere nel vedere la reazione dei genitori della ragazza considerata da loro una “zitella permanente” non tanto dal fatto che si presenti finalmente con un fidanzato, ma perché questo fidanzato non è greco. Conosco tante ragazze italo-australiane che adorano il film proprio perché le loro esperienze con i propri genitori sono state identiche.
 
Tuttavia, sbaglieremmo di grosso se limitassimo questi cambiamenti soltanto al cibo e ai film. 
 
La nostra lingua e le nostre origini ed esperienze fanno parte di come vediamo il mondo. Abbiamo modi molto diversi di interpretare la vita, di agire con gli altri e lavorare. Per questo motivo ogni cultura e ogni nazione ha aspetti facilmente identificabili. Figli di emigrati italiani hanno cambiato i loro Paesi di nascita anche come architetti, ingegneri, accademici, artisti e in ogni campo dell’esistenza, perché hanno imparato dai loro genitori cose che i loro coetanei non avevano imparato a casa. Ogni cultura lascia ai propri figli aspetti peculiari.
 
 Allo stesso modo, in ogni Paese con forti comunità emigrate sono nate società e industrie importanti ispirate dalle origini dei loro fondatori. Anche per questo è sbagliato trattare il fenomeno dell’emigrazione solo in termini di luoghi comuni e considerare ogni gruppo in generale e non ogni singolo individuo per il contributo che dà al nuovo Paese.
 
I Paesi di origine hanno l’obbligo morale di documentare le esperienze dei propri connazionali all’estero perché i loro contributi nei Paesi nuovi non hanno solo origine in quei Paesi. Riconoscere i contributi dati ad altri Paesi è, a tutti i livelli, il riconoscimento del contributo che il Paese d’origine fa alla cultura del mondo.
 
Non dovremmo trattare più le comunità italiane all’estero come semplici appendici della nostra esistenza. Dovremmo invece riconoscere che queste comunità fanno parte della nostra Storia e che sono anche parte fondamentale della nostra economia e cultura.
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