L’emigrazione italiana rappresenta una pagina buia e terribile della storia d’Italia: non c’è paese al mondo che si sia liberato di così tanti figli come l’Italia: si calcola che dal 1880 ai primi anni del Novecento almeno 22-23 milioni di Italiani hanno lasciato il loro paese: oggi una seconda Italia vive fuori dei confini!

E nel corso dell’esodo quante storie si registrano ma che non si raccontano perché terribili e feroci: già, per esempio, al momento della partenza nei porti italiani specie Genova e Napoli si crearono situazioni del massimo degrado e sfruttamento, di fronte alle quali gli scafisti di oggi sono ben poca cosa: basti pensare -una delle tante vicende che si raccontano-  che interi carichi di questa umanità venivano sbarcati dagli scafisti anzi piroscafisti nostrani sulle coste della Scozia del Nord o del Galles o dell’Irlanda, dicendo che erano arrivati nella mitica America e li abbandonavano!   

E a Napoli e sua regione, la emigrazione fu una realtà triste e terribile come ogni fatto migratorio ma ebbe un qualcosa in più che in qualche modo la distingue e la innalza: il trauma della partenza e dell’addio, il napoletano ha avuto la fortuna o la capacità e saggezza di temperarlo e di addolcirlo…con la canzone! E quali canzoni e quali parole sulla emigrazione e sulla partenza! E quali sentimenti!

In realtà Napoli è un mondo a parte: non è un modo di dire, è una realtà della storia. E’ vero, la miseria, l’arte di arrangiarsi, i vicoli puteolenti, la situazione sociale terribile in certi luoghi della città, i trovatelli e orfanelli e figli di nessuno in grande quantità, i guappi e la camorra: Francesco Mastriani e Matilde Serao hanno lasciato uno specchio della realtà di Napoli negli anni dopo il 1860:  l’ignoranza, la sopraffazione e l’arbitrio, la legge per pochi, l’ingiustizia, lo sfruttamento, eppure…i napoletani cantavano! Inaudito: soprattutto in quel momento così tragico cantavano e come cantavano!

Se si va in Via Duomo, una via nel centro di Napoli, sulla casa abitata da uno dei grandi creatori  della canzone napoletana dell’epoca, Libero Bovio, è stata collocata una lapide dove si legge “ E ‘j sò napulitano,/ e si nun canto, moro” “sono napoletano/e se non canto, muoio!”.

La via terribile della emigrazione iniziò dopo la cosiddetta liberazione garibaldina e dopo la cosiddetta unità che portarono nella città e nell’Italia specie meridionale, grande fame grande degrado grande miseria grande violenza grande ferocia. Di conseguenza i napoletani e non solo i napoletani, intrapresero la via terribile della emigrazione in massima parte oltre oceano.  

E quali canzoni! Le sole parole e la musica celebri ormai in tutto il mondo, oggi più che allora, sono sempre motivo di inaudita nostalgia e tristezza: che parole! “t’allontani da questo cuore/dalla terra dell’amore/ hai coraggio di non ritornare?”,  “Napoli, o suol beato/ove sorridere/volle il creato…”;  “se giri il mondo intiero in cerca di fortuna, / quando spunta la luna/lontano da Napoli non si può stare”. Qualche concetto pare ricalcato direttamente dal romanticismo tedesco:  “più lontana mi stai/più vicina ti sento!” E ancora: “o bella Napoli/o suol beato/ove sorridere/volle il creato”,   “ Come potevo far fortuna all’estero/se io voglio vivere qui?”

 Basti ricordare che i prosatori e musicisti stessi erano sovente obbligati a emigrare per sopravvivere  e il mestiere  esercitato era quello dei cosiddetti ‘posteggiatori’, dei suonatori  ambulanti per le strade del mondo, nei locali pubblici e non di rado  nei teatri: sono stati tra l’altro i messaggeri autentici della canzone napoletana: gli studiosi della canzone napoletana evidenziano che qualcuno ebbe successi inimmaginabili in America, altri li  troviamo in Ucraina, a Montecarlo, a Stoccolma, in tutte le città principali d’Europa, qualcuno, racconta il cronista,  riscosse tanta popolarità e consensi da essere perfino insignito del titolo di Sir dal Sovrano inglese e un altro di questi ‘posteggiatori’, lo ‘Zingariello’ famoso, così stimato e considerato che Wagner, il grande compositore, lo conduceva con sé nelle sue tournée artistiche.

Si direbbe dunque quasi che emigrazione e canzone siano complementari, i binari della esistenza di tanti e tanti napoletani sparsi per il mondo. L’unica analogia possibile, questa quasi sinergia  incredibile di musica e disperazione, la si riscontra coll’emigrante ciociaro che batteva le vie del mondo col piffero e l’organetto  e la zampogna. Anche i figli di Viggiano in Basilicata abbandonavano il loro paese con l’arpa, con la musica dunque, ma sono una nicchia minima nel fenomeno colossale della emigrazione italiana. Resta l’analogia tra emigrazione napoletana e quella ciociara, all’insegna della musica.

“Saluta Napoli per me/dille che è stata la mia passione/dille che l’ho amata quanto a te/”:  in napoletano le parole hanno una musicalità intraducibile. L’emigrante che torna: “ma è vero o non è vero/che sono tornato a Napoli?/Ma è proprio vero che sono qui?”

“Questo è il paese del sole/questo è il paese del mare/questo è il paese dove tutte le parole/sono dolci ed amare/sono sempre parole d’amore”.  E poi ancora: “partono i bastimenti/per terre assai lontane…/a bordo cantano: sono napoletani…/cantano mentre/il golfo già scompare/ e la luna in mezzo al mare/ fa vedere ancora un po’ di Napoli…”

O quel napoletano che è vissuto tanti anni in America e poi torna a Napoli, da forestiero dunque, ma poi  in carrozza, mentre si guarda attorno, riconosce e sente e palpita:  comincia a piangere,   si accorge che  “il cuore non è… forestiero”.


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