Mi ritornano in mente alcune strofe della Canzone de lo capodanno, quelle che meglio si ricordano, alcune, per la loro sagacia, altre, profondamente stampate nella mente perché rivissute unitamente all’eco della voce di mia madre e di mio padre che ce la facevano prima ascoltare, poi cantare, ogni fine d’anno dopo il pranzo serale nell’attesa della mezzanotte. 
 
Mancava il canovaccio, ma mio padre che conduceva il canto della lunga canzone conosceva bene a memoria alcune strofe, che metteva in fila a modo suo. Una volta, noi ragazzi eravamo divenuti più grandicelli, prendemmo dal giornalaio il foglietto col testo della Canzone e con grande disappunto ci accorgemmo che non corrispondeva a quello che intonava mio padre.
 
Comunque il fatto che ci fosse un motivo musicale del canto e che circolassero testi letterari scritti, seppure non sempre coincidenti, mentre ci assicurava di un’origine unica della tradizioni, ci indicava anche che, fatti salvi i diritti dell’unico Autore, per quanto Anonimo, nel tempo si era creato quasi un filone di testi originati da varianti locali legate a situazioni e sensibilità del posto, o addirittura delle singole famiglie. È la sorte della poesia d’occasione. 
 
Ma poi, in seguito, in un’antologia scolastica per la scuola media trovai proprio il testo che corrispondeva di più a quello che si cantava in famiglia, presentato come anonimo e trovato, così diceva il curatore del libro, tra le carte nella biblioteca del filosofo Benedetto Croce. 
 
La Canzone de lo capodanno è un lungo canto augurale: “la ‘nferta” (l’offerta), che i musici portavano alle famiglie, nei giorni delle feste natalizie e di fine d’anno. Per la sua lunghezza appare quasi una sceneggiata.
 
In alcuni centri della penisola sorrentina e della costiera amalfitana, in particolare a Maiori dove se ne attribuisce la paternità a un loro concittadino, è l’intera comunità locale a parteciparvi. Mentre nelle città più grandi generalmente la si canta in famiglia, nelle case. O anche nei cortili con la partecipazione delle famiglie del vicinato. 
 
Questa ‘nferta natalizia, nel testo tramandatoci dal Croce, è un componimento molto raffinato, ben strutturato, che, per scelta linguistica e contenuti del tema, presuppone un autore acculturato, vigile, intelligente, del cui nome però si è perduta la memoria. Purtroppo passa per anonimo, perché anonima era la copia a stampa che veniva fatta circolare per Natale, e che, come tale, è stata trovata nella raccolta di cose semplici, ma meritevoli di riguardo, tra testi ben più importanti della biblioteca di Benedetto Croce.
 
Con questo canto, nel chiedere l’offerta gli “amici buontemponi” portano gli auguri per il nuovo anno a un destinatario di loro conoscenza del ceto sociale non meglio identificato. 
 
Il canto si apre con l’annuncio che si è giunti al termine dell’anno e bisogna perciò trascorrere la notte in allegria. Continua poi, per una settantina di strofe, presentando diverse sezioni: il mito, la storia, la realtà quotidiana di paese, il sentimento religioso, l’espressione degli auguri a tutte le professioni, e si conclude con l’intenzione della dedica e con la richiesta di una offerta insieme alla speranza di vedersi ancora l’anno prossimo in condizioni di maggior benessere morale e materiale (la sostanza degli auguri!). 
 
A leggerla oggi, la Canzone sembra composta da un fine osservatore dei tempi moderni, acuto e brillante al tempo stesso, brioso e caustico come deve essere un autore seriamente (e coscienziosamente) satirico. 
E concludo. La migliore offerta, insieme ai voti augurali, che l’estensore di queste note può donare ai suoi amici, anonimi lettori, è quella di riportarne il testo della Canzone nella versione più diffusa, quella che ci è stata conservata dal Croce.   
 
L’introduzione è un recitativo di due strofe di endecasillabi (ad eccezione del primo verso della seconda strofa che è un verso doppio formato da due settenari). 
 
Seguono 69 quartine (tre settenari, più un quinario). Il secondo e il terzo verso rimano tra loro; l’ultimo rima col primo della strofa successiva, creando un concatenamento di tutto il canto. Lo stesso richiamo dei due semicori alternati, ne sottolinea la unità compositiva. 
 
L’intonazione è data dal corifeo che imposta ogni strofa melodicamente evidenziandone il tema musicale. Dopo una ripresa del primo semicoro che ripete l’ultimo verso, i due gruppi, uniti riprendono i due ultimi versi della strofa. Le sezioni tematiche sono: Argomento, La situazione dell’umanità alla nascita del Messia, Il sentimento religioso, L’esuberanza della festa di popolo, La narrazione biblica adattata in chiave popolare, La vivace animazione della città, L’augurio rivolto singolarmente ad ogni categoria professionale, La conclusione:  I musici sono stanchi e chiedono l’offerta, Elogio del padrone di casa: Il saluto augurale. E buonanotte.
 
Per lungo tempo ignorati dalla cultura musicale italiana, e abruzzese in particolare, gli zampognari furono considerati e spesso esaltati con un alone di leggenda da scrittori, poeti, pittori e musicisti stranieri in occasione del loro viaggio o soggiorno in Italia. I viaggiatori del Grand Tour, scendevano in Italia attratti dalle testimonianze storiche, dall’immenso patrimonio artistico e culturale, dai paesaggi, dal clima e dallo stile di vita. 
 
Nell’Ottocento sotto la spinta del romanticismo furono spesso affascinati dalla civiltà pastorale ovunque si manifestasse, in Abruzzo come lungo i millenari sentieri della transumanza che univano l’Abruzzo alla Puglia e nella campagna romana. Per gli artisti, letterati e musicisti che temevano di avventurarsi in Abruzzo, terra percepita come aspra, con montagne selvagge e pericolosa per la presenza di briganti, era possibile imbattersi nei pifferari – come li chiamavano – a Roma, dove arrivavano da tempo immemorabile nel periodo che precedeva il Natale, come pure a Napoli o in altre città. 
 
A loro si devono testimonianze significative per ricostruire le tracce degli zampognari e della rilevante influenza esercitata nella cultura europea di ieri e di oggi. Pastori e zampognari, paesaggi, greggi e costumi divennero nell’800 una componente dell’Italia romantica e pittoresca. 
 
Riscoprirli attraverso testimonianze letterarie, artistiche e musicali lasciate dai viaggiatori stranieri con l’obiettivo di ricostruire la presenza dei pastori-musicisti seguendoli negli itinerari del passato è una sorta di “viaggio nel viaggio” insieme a pastori, viandanti, viaggiatori e pellegrini alla ricerca di quelle tracce perdute. Una presenza molto antica, che riguardava variamente l’intero centro sud, la Basilicata, la Calabria e la Sicilia e soprattutto il Lazio meridionale e il Molise.
 
“Quest’anno sono arrivati dagli Abruzzi più zampognari del solito… Erano di Pescocostanzo e appena arrivati avevano chiesto alla gente dove si trovasse il papa”, scrive nel suo romanzo “Avventura di un povero cristiano” Ignazio Silone,  inserendo il riferimento agli zampognari nel dialogo tra alcuni frati vicini a Celestino V, in quel travagliato dicembre del 1294 che avrebbe portato alle dimissioni del papa eremita vissuto sulla Maiella-Morrone; un dettaglio che  richiama la tradizione  degli zampognari lontanissima nel tempo, come testimoniato da espressioni artistiche ancora presenti in antiche chiese abruzzesi. L’antico mondo pastorale di cui la zampogna era espressione, era caratterizzato da grandi numeri di capi ovini e di conseguenza di pastori.
 
Nell’anno 1592 “la provincia dell’Aquila svernava in Puglia 4.471.496 pecore”, seguendo gli antichi tratturi della transumanza. Il dato non comprendeva le  pecore “rimaste” (greggi con meno di 20 pecore), i capi diretti alla campagna romana, all’agro ternano e quelle esistenti nelle altre province. Sui pascoli del Tavoliere convergevano le greggi provenienti da Puglia, Molise, Balisicata e Campania. Ma tre quarti dei capi al pascolo sul Tavoliere erano provenienti dall’Abruzzo. Le condizioni dei pastori sono state sempre miserabili. 
 
Chi aveva un orecchio musicale, anche se analfabeta, apprendeva dal padre o dal nonno a suonare la zampogna, dando continuità ad un repertorio tramandato di generazione in generazione, cogliendo l’opportunità di integrare le magre entrate con offerte in denaro o in natura. La zampogna era costruita dal  pastore, di cui era malinconica compagna nelle ore di solitudine trascorse nella vigilanza del gregge.
 
Nel Settecento furono in pochi ad avventurarsi nella regione, ma il romanticismo ottocentesco spinse molti a superare paure e pregiudizi con cui era stata diffusa l’immagine dell’Abruzzo, fattori che si trasformarono in potenziali motivi di attrazione. Segnaliamo alcune testimonianze utili per immaginare la civiltà  pastorale abruzzese e la presenza della zampogna: Edward Lear, cui si deve una delle prime trascrizioni musicali eseguite dopo aver ascoltato i pifferari sulle montagne durante i suoi viaggi in Abruzzo nel 1843 e 1844; la scrittrice americana Maud Howe,  Augustus J. C. Hare, Waldemar Kaden, Ann Macdonell, Estella Canziani, ecc. Ancor più numerosi sono stati i pittori e gli incisori.
 
“Pittori e musicisti portano con sé l’immagine ed i suoni, nelle loro anime e lì che li trattengono, li modellano e li trasmettono. Così nascono le sinfonie, e tutte queste composizioni provengono da quegli antichi suoni, che sono la base di tutte le pastorali” – Hans Geller, in un saggio pubblicato in Germania nel 1954, ricostruisce l’influenza degli zampognari abruzzesi su musicisti e pittori tedeschi; tra i compositori che “presero in prestito le melodie dei flauti” lo studioso cita Haendel, Bach, Gluck, Beethooven, Landsberg e Kerll, per i pittori e incisori l’elenco è ancora più lungo, con numerose opere esposte in vari musei tedeschi.
 
Tra i musicisti merita di essere ricordato Hector Berlioz. Nell’estate 2012 è stata allestita una mostra in Francia dedicata al viaggio musicale in Italia del grande compositore, che ha posto al centro dell’esposizione la rilevante influenza esercitata sulla sua opera dalla musica popolare italiana e in particolare dalle sonorità dei pifferari abruzzesi. Il musicista rimase rapito dalla loro musica quando li ascoltò a Roma nel dicembre del 1831, come scrisse  nelle sue memorie. Dalla mostra della mostra si apprende che nelle escursioni abruzzesi Berlioz fu spesso accompagnato dal compositore tedesco Mendelssohn.
 
“Ho notato solamente a Roma una musica strumentale popolare che tendo a definire come un resto dell’antichità: parlo dei pifferari. Ho sentito in seguito i pifferari nelle loro terre e, se li avevo trovati così notevoli a Roma, l’emozione che ho ricevuto fu molto più viva nelle montagne selvagge dell’Abruzzo, dove il mio umore vagabondo mi aveva condotto”, scrisse Berlioz nelle sue memorie di viaggio. Tornato a Parigi, Berlioz ripensando ai paesaggi abruzzesi compose la sinfonia “Harold in Italie”. La sinfonia comprende “Serenade d’un montagnard des Abruzzes a sa maitresse”. Era soprattutto durante il periodo natalizio a Roma che la presenza dei pifferari era diventata nei secoli una tradizione apprezzata dai romani e anche dai tanti viaggiatori stranieri che facevano della città eterna il riferimento fondamentale del Grand Tour in Italia. Tra le testimonianze sul mondo degli zampognari si ricordano Stendhal, Goethe, Dikens. 
 
Nel 1870 dopo l’acquisizione dello stato pontificio al Regno d’Italia misure di sicurezza impedirono l’accesso a Roma dei pifferari, per il rischio che potessero tra loro nascondersi dei briganti. Negli stessi anni venivano soppresse le leggi che imponevano il pascolo forzato sul Tavoliere. Entrò in crisi l’economia pastorale dell’Abruzzo e di conseguenza anche gli zampognari furono costretti ad emigrare, lasciando i loro paesi. Non a caso una zampogna appartenuta ad un emigrante abruzzesi si trova da tempo esposta in un museo della città americana di Pittsburgh. Un vero e proprio esodo, che ha decimato le aree interne. 
 
Con un pizzico di amarezza, fu l’inglese John Alfred Spranger, in un suo articolo pubblicato nel 1922 su Journal of the Royal Anthropological Institute, ad annotare che “L’uso della zampogna era un tempo molto diffuso in tutto l’Abruzzo”. Alla fine dell’800 era stata soprattutto la visione arcadica di Gabriele D’Annunzio ad esaltare l’Abruzzo pastorale e a rilanciare il mito della zampogna, di cui possedeva un esemplare nella residenza toscana di Settignano. Nella tragedia “La figlia di Iorio”, ambientata sulla Maiella, volle che una cornamusa fosse inserita nella grotta di Aligi, ma frequenti sono i riferimenti allo strumento in altre sue opere.
 
Recenti studi affermano che S. Alfonso Maria de Liguori scrisse il testo del famoso canto di Natale “Tu scendi dalle stelle” (“You come down from the stars”), utilizzando melodie già da tempo suonate dai pastori abruzzesi, che il santo-musicista napoletano ebbe modo di seguire da vicino per oltre due anni (1744/1746) a Deliceto, in Puglia, nel Santuario della Madonna della Consolazione, situato in prossimità del tratturo Pescasseroli-Candela. L’antico santuario venne riaperto ad opera di Sant’Alfonso che volle assicurare l’assistenza spirituale di quella enorme massa di pastori transumanti di cui nessuno si occupava.
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