Esiste una simpatica e sfiziosa canzone popolare che ho sentita cantare da piccolo, in famiglia, e che caratterizza lo spirito e la tradizione del popolo napoletano: è la “Canzone de lo capodanno”. La intonava mio padre ogni anno, in occasione della cena del 31 dicembre, nell’attesa della mezzanotte. Aspettando che anche la mamma si sedesse con noi per dare il via ai giochi di famiglia intorno alla tavola e mangiucchiare qualcosa delle ultime portate dello storico cenone, sempre nuovo e sempre uguale. Quando a tavola erano rimasti i vassoi o le ceste di frutta di stagione (arance, mandarini, mele), di frutta secca assortita: le cosiddette “ciòciole” di Natale (nocciole, noci, fichisecchi di ogni sorta, prugne, uvetta, castagne del prete), frutta esotica o di fuori stagione (melone, uva, pere, banane, ecc.). E poi i dolci (sesamelli, roccocò, mostacciuoli, pasta reale, a volte anche le cassatine), la mezza bottiglia di vino dolce abboccato o una presa di liquore, torrone. Più tardi, alla prima interruzione dei giochi, sarebbe arrivato il caffè. Quel canto veniva ripreso all’avvicinarsi della mezzanotte, quando, all’ora 0,00 in punto, fuori si sarebbe scatenata la baraonda dei fuochi d’artificio; contemporaneamente in casa avremmo stappato lo spumante per il brindisi augurale.
Poi, passato quel momento tanto atteso e tanto caro dello scambio degli auguri per il nuovo anno (ma l’emozione era per esserci ritrovati tutti presenti, ancora una volta), assopito il frastuono dei botti, mio padre con uno sforzo di memoria che non sempre gli riusciva – cosa che gli era riuscita bene per la Canzone de lo capodanno – perché questa volta le parole erano latine, intonava il Te Deum, l’inno di lode e di ringraziamento a Dio per l’anno appena trascorso. (All’età della prima lettura, e, in seguito, all’età del latino, noi figli avevamo imparato a seguire sui libri di preghiera il testo del cantico, con l’alternanza dei versetti come si fa coi salmi. E solo allora scoprimmo il senso delle parole.).
Per la Canzone de lo capodanno, invece, non abbiamo mai avuto un testo scritto, per cui bisognava fare affidamento sulle capacità mnemoniche di mio padre. Ma quella non era in latino, anche se, come per il Te Deum, non sempre comprendevamo tutte le espressioni. Tutto sommato ciò non ci creava disagio, perché, noi – il coro – intervenivamo solamente come controcanto, strofa per strofa, nella ripresa dell’ultimo verso.
La notte di Natale, invece, quando il clima della vigilia e il cerimoniale dei preparativi della cena erano in un certo senso i medesimi, il tempo dell’attesa era tuttavia più breve; e anche il gioco della tombola, dopo la cena, durava meno. Si sapeva, infatti, che ad un certo momento si doveva andare alla messa di mezzanotte. Anche quella festa però aveva i suoi particolari riti famigliari, consolidati nella tradizione; e così, qualcuno di noi ragazzi si avviava in anticipo in chiesa, per lasciare liberi gli adulti di prepararsi con comodo. In effetti, l’attesa natalizia si esprimeva meglio nelle ore precedenti la grande cena, l’unico pasto della vigilia, che a causa del digiuno canonico, tradizionalmente si svolgeva all’imbrunire.
Mentre la mamma lavorava alla cucina, e mentre si aspettava il rientro dal lavoro del papà, il pomeriggio era dedicato alle ultime rifiniture del presepe o dell’albero; oppure ognuno, secondo il proprio comodo, si recava in chiesa per la confessione. Così dopo cena restava appena il tempo di fare ordine in casa prima di prepararsi ad uscire. Gli auguri, a parte quelli scambiati con gli amici all’uscita della messa, ce li facevamo al rientro a casa, quando la mezzanotte era passata da un pezzo, sempre con spumante e panettone. E, prima di andare a letto, al canto del “Tu scendi dalle stelle” seguiva la piccola processione con la statuina del Bambinello attraverso tutti gli ambienti della casa, per terminare al presepe, dove Gesù Bambino veniva adagiato nella mangiatoia. Una specie di benedizione domestica.
Questi sono i canti del mio Natale.
Ma quella canzone del capodanno “Aprimmo l’anno nuovo cu tricchi-tacche e botte …” , che, deformata, sentivo cantare in tante versioni, la cui melodia mi ronzava tutto l’anno nella testa, passato il periodo dell’infanzia, l’avevo cercata senza sosta e senza esito per recuperarne il testo, e continuare così la bella tradizione. Una volta ho creduto di averla trovata presso un edicolante di giornali. Ma non aveva lo stesso testo, pur mantenendo la stessa metrica. Segno che ce circolavano diverse versioni, o che da qualche parte ci fosse l’abitudine di ricrearla di anno in anno.
Passati alcuni anni, essa mi fu graziosamente offerta, in fotocopia, da un amico, che sapeva della mia tormentosa ricerca. Era la fotocopia di una pagina di antologia di scuola media. Una nota bibliografica la indicava come “tipico componimento popolare della tradizione napoletana, conservatoci da Benedetto Croce (1866-1952)”.
Ecco. Quel canto – con tutta l’aura di poesia e di nostalgia che l’accompagna – oggi offro a tutti i napoletani sentimentali, ai loro amici, e a quanti amano e studiano le tradizioni popolari. Insieme ad una probabile traduzione italiana. (Per chi, non essendo napoletano, ne voglia comprendere il senso).
Si tratta di un’offerta, la mia.
E “offerta” è anche il nome del genere letterario a cui appartiene la “Canzone de lo capodanno”. Più esattamente, “a ‘nferta”: canto popolare che accompagnava la richiesta di un’offerta da parte di quelli che domandavano la carità per le strade, in genere cantastorie e cartomanti.
Qui però si tratta più di una serenata di amici ad amici, in cui è narrata la storia sacra e quella profana, civile, sociale, economica, e vi sono rappresentati il mistero della fede e la vita del popolo, attraverso le scene dell’abbondanza, della festa, della felicità, degli auguri, della tradizione, dei doni, della cucina casalinga, della visita agli amici, dell’ospitalità, dei mestieri e delle professioni, grazie ad una loro sagace e salace interpretazione; per finire con l’augurio, comunque, che per tutti l’anno nuovo possa essere migliore del precedente, e la promesse di ritornare l’anno prossimo.
La canzone è ammirevole per la sua spontaneità; è fresca per la sorprendente attualità; emblema e simbolo dell’anima semplice, ironica, e profondamente seria del popolo napoletano.