L’oblio è durato sessantanove anni: dal pomeriggio del 9 settembre del ’43, appena dopo aver siglato l’armistizio con gli alleati, fino ad un giorno dello scorso fine giugno. Adagiato su un fondale a mille metri di profondità, davanti all’isola dell’Asinara, in Sardegna, a sedici miglia dalle coste, un team di ricerca, guidato dall’ingegnere Guido Gay, ha rinvenuto il relitto della Corazzata Roma, uno dei gioielli dell’allora Marina Regia.

 
Una storia, quella dalla nave da battaglia italiana affondata da due bombe telecomandate tedesche, ammantata di mistero e di mestizia. La sua carcassa, da stime effettuate dalla Marina Militare, nel corso di questi lunghi anni, si credeva fosse adagiata davanti alle coste di Castelsardo, uno dei lembi della Sardegna che volge lo sguardo verso le Baleari.
 
Mestizia perché il suo naufragio spezzò la vita a quasi millequattrocento marinai, compreso l’Ammiraglio Bergamini ed una pletora di alti ufficiali della Marina Italiana. Un evento terribile: si salvarono soltanto in seicento, per lo più con un colpo di fortuna, gettandosi prontamente in mare, senza essere investiti dalle esplosioni oppure restando imprigionati nelle stive della Roma. Il ritrovamento del relitto ha così riportato in prima pagina la storia della corazzata: costruita tra i cantieri navali di Trieste e Monfalcone. Una nave da battaglia regale nel suo incedere: così l’hanno dipinta molteplici immagini e commenti di repertorio, rigorosamente in bianco e nero, dell’Istituto Luce.
 
Nei suoi quindici mesi di servizio (nel ’42, appena inaugurata, era già stata attaccata e danneggiata all’interno della base di La Spezia) aveva percorso quasi cinquecento miglia, senza partecipare peraltro a nessun combattimento. È stato un sofisticato robot subacqueo, il Pluto Palla, ad individuarla, finalmente, strappando all’oblio la sua fine terribile. Due ufficiali della Marina Militare hanno certificato il ritrovamento, osservando con cura le foto scattate ai cannoni della corazzata dal robot, in fondo al mare.
 
Un epilogo drammatico perché avvenuto il giorno dopo la firma dell’armistizio con gli alleati: la Roma, al pari di altre navi facenti parte di un convoglio partito da La Spezia per dirigersi, come da accordi con le forze americane, all’isola de La Maddalena, venne attaccata prima da aerei tedeschi, schivando l’imboscata. Successivamente, alle quattro meno un quarto del 9 settembre del ’43, due nuove bombe telecomandate tedesche, la colpirono ad un fianco, facendola subito reclinare.
 
L’agonia durò pochissimo, neppure venti minuti. La corazzata Roma sprofondò in mare, portando con sé milletrecentocinquantadue marinai. Ecco perché molti dei loro parenti, oggi, rievocando la tristissima storia, hanno nuovamente pianto. Una strage rigorosamente italiana: morire il giorno dopo la resa agli alleati. La Marina Militare non procederà al recupero: quando una nave si inabissa, per prassi, resta in mare. Assomigliando, nel caso della Roma e del suo carico di morte, ad una sorta di sacrario.
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