Oltre ad essere un critico letterario, un critico d’arte, uno scrittore, un giornalista, Emilio Cecchi era anche un consumato ed appassionato viaggiatore. 
 
Quando nel 1930 l’Università della California di Berkeley lo invitò a trascorrere un anno presso il Dipartimento di Arte, a insegnare cultura italiana in qualità di visiting professor, non ebbe tentennamenti e partì. Dai viaggi, del resto, il letterato fiorentino traeva foraggio per le sue memorabili prose d’arte, e considerando pure che da tempo desiderava visitare il Messico, l’occasione era davvero ghiotta e imperdibile.
 
Cecchi s’era formato in quella Firenze che, all’epoca, era l’indiscussa capitale letteraria d’Italia. Era la Firenze de La Voce e de La Ronda, di Solaria, di Papini, Prezzolini, Soffici e tanti altri; un florilegio di riviste culturali che ospitavano scrittori di ogni estrazione, poeti, circoli letterari, caffè, le prime traduzioni dei grandi contemporanei europei… è da questo fermento che sbuca Emilio Cecchi, e da questo micromondo così denso, concentrato di arte e storia che s’invola verso la lontanissima San Francisco.
 
Le esperienze di quell’anno trascorso negli Stati Uniti sono raccolte e conservate nelle pagine di America Amara (1939); titolo fuorviante, perché in realtà privo di alcuna connotazione negativa: alla solita, superficiale e trita polemica sulla civiltà dei consumi, Cecchi preferisce un ritratto vivido e poetico del Nuovo Mondo; un ritratto composto da una serie di riflessioni sui luoghi e sui personaggi più disparati che lo scrittore ebbe modo di conoscere durante il suo anno lontano da casa.
 Emilio Cecchi è considerato una delle figure di maggior rilievo per il giornalismo culturale italiano della prima metà del Novecento 

 Emilio Cecchi è considerato una delle figure di maggior rilievo per il giornalismo culturale italiano della prima metà del Novecento 

 
Lo stile adottato da Cecchi è quello usuale della sua prosa d’arte: elegante, ricercato, alleggerito da un perenne, soffuso velo d’ironia, da un mezzo ghigno un poco beffardo. Nelle pagine divertentissime in cui descrive la vita universitaria degli studenti di Berkeley (ma la penna di Cecchi non risparmia certo neanche i colleghi), il fiorentino rende pieno merito alla sua terra d’origine, privilegiando un taglio neanche troppo velatamente canzonatorio:
 
“Le cerimonie dell’immatricolazione s’erano svolte in un’aura che direi quarantottesca, perché goliardica sbracataggine di quello stampo noi non potremmo concepirla che rifacendosi ad Arnaldo Fusinato. Con i cappelli rivoltati, la camicia fuori dei calzoni, oppure ignudi fino alla cintola, i matricolini erano costretti a lunghe genuflessioni, e a baciar l’asfalto davanti al cancello universitario… tante sono le strade per arrivare alla saggezza”.
 
Il letterato raffinatissimo, che ha ricevuto i natali dalla culla del Rinascimento, motteggia i suoi nuovi, agiati studenti della rinomatissima e moderna Berkeley, come forse solo un salace maestro del contado toscano potrebbe, in qualche scuola elementare persa nella campagna di Scandicci o San Casciano: “Rozzi, ispidi ma docili, e non di rado sgobboncelli. Scarso senso critico. Nessuna curiosità indipendente. Nell’appoggiarsi alle cose studiate, l’assolutezza di chi comperi un cavatappi d’ultimo modello, e farebbe i più inveleniti reclami alla ditta se poi il tappo non esce”.
 
Le bordate più divertite, però, sono destinate alle ragazze californiane:
“Il gergo  americano ha una vasta scala d’appellativi per le ragazze. Ma quando corrono così attruppate, uguali, scodinzolanti, e sotto gli alberi fanno ressa davanti alle classi, non c’è da esitare: allora, come le chiamano con un vocabolo che sa di sole e di fieno, allora son proprio: heiferettes, le vitteline”.
 
Altrove, in un surplus metaforico e immaginativo, le paragona alle mele sul banco del fruttivendolo; di quelle mele californiane, belle a vedersi, luminose e colorate, tutte uguali però, e ad assaggiarle poco saporite. Poi, in capoversi spassosissimi si arriva a raccontare gli sforzi di studio di questi giovani studenti di cultura italiana a Berkeley:
 
“Sono inclini a imparare: riguardo almeno ai dati di fatto; non so quanto in materia di gusto. Perché e come l’Eva di Masaccio sia un tremendo capolavoro, mostravano di capirlo. Ma se un insegnante avesse spiegato che quella è invece una meschina pittura, forse l’avrebbero creduto, indifferentemente. […] Era una strana impressione, quando pronunciando la prima volta uno dei nostri grandi nomi: Giotto, Masaccio ecc., si sentiva che mai lontanamente l’avevano udito ricordare. Provavano a ripeterlo, atterrite: Ciotto, Ciotto…”
 
Ma in tutto questo carnevale, così distante dalle radici della cultura che andava insegnando, e direi anche nonostante tutto questo, Cecchi riesce a intravedere un candore nei suoi nuovi studenti, una schiettezza e uno slancio in cui riconosce i valori dell’America nella sua interezza. 
 
La sua esperienza di professore, infine, si rivela piena e appagante, come forse in nessun altro luogo sarebbe stato possibile. La California, terra così giovane e pratica, priva di fronzoli, può forse accostarsi all’arte italiana in modo tanto diretto, privo di quel passatismo e delle scorie del tipico intellettualismo europeo.
 
Per il letterato fiorentino è quasi una rivelazione: in questo spirito così ingenuo, che è l’anagramma di genuino, Cecchi proclama d’aver trovato ciò che forse esiste di più prezioso per un insegnante: “Una ragazza un giorno m’interruppe, mentre illustravo un’ Annunciazione: – Quale dei due è la Vergine e qual è l’Angiolo? Eppure l’Angiolo spiegava le sue ali di farfalla. E la Vergine, come tutte quelle d’Ambrogio Lorenzetti, era formosa, amorosissima. Provai un senso estatico. Alla fine ero nel deserto. E su codesta tabula rasa forse sorgerebbero, inimmaginabili, i miti di domani”.

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