Cesare Beccaria è autore dell'opera “Dei delitti e delle pene”. L'opuscolo del 1764 è un manifesto dell’Illuminismo italiano (Ph yandso grafik da Pixabay)

Nel mondo antico Le leggi di Dracone erano note per la durezza e la pesantezza delle pene: quasi a tutti veniva comminata la pena di morte; per coloro che sbagliavano, per coloro che cadevano nella pigrizia, per coloro che rubavano gli ortaggi e la frutta tutti, ugualmente, venivano puniti come pericolosi criminali. Perciò si narra che attraverso il sangue, non attraverso l’inchiostro, Dracone avesse scritto le leggi. Egli, come tramanda Plutarco, interrogato perché avesse disposto la morte come punizione per tutte le colpe rispondeva che riteneva quelle piccole degne di pena capitale mentre per i reati più gravi non ne aveva di peggiori a disposizione.

Uno dei primi pensatori ad aprire un dibattito sul problema etico della pena capitale e a proporre una visione alternativa della giustizia è stato Cesare Beccaria, a me molto caro da sempre perché ho frequentato come studentessa proprio il liceo classico “C. Beccaria” di Milano. Un personaggio davvero molto particolare il futuro nonno di Alessandro Manzoni, caratterizzato da un’indole introversa e molto chiusa.

Egli, sappiamo dai biografi, dopo essere stato diseredato dal padre per avere sposato una ragazza del popolo, Teresa Blasco, si appoggiò spesso sull’ amicizia dei fratelli Verri, in particolare di Pietro, che lo accompagnò a Parigi e nelle principali corti europee. Alessandro Verri, invece, avrebbe amato Giulia, la figlia di Cesare Beccaria e dalla loro unione sarebbe nato Alessandro Manzoni, adottato come figlio dal conte Pietro Manzoni, legittimo marito di Giulia Beccaria.  Nell’opera “Dei delitti e delle pene”, opuscolo del 1764 e manifesto dell’Illuminismo italiano, spiegò che secoli passati in cui è stata applicata la pena di morte non hanno impedito agli uomini di commettere ugualmente i peggiori delitti. Beccaria era invece favorevole a lunghissimi ed interminabili periodi di detenzione che avessero uno scopo rieducativo. Egli visse in un’epoca che vedeva il male insito nella natura di alcuni uomini fin dalla nascita, come predestinati, ma ebbe il coraggio di “pensarla diversamente”: egli considerò per la prima volta, scandalizzando i benpensanti, che l’ambiente di nascita e crescita della persona, per pura che sia la sua indole, se degradato e corrotto, può condurre l’individuo alla rovina morale e trasformarlo anche nel peggiore tra i criminali.

La rieducazione di un cittadino risulta quindi per Beccaria inconciliabile con la pena di morte.

Non a caso esiste a Milano, il riformatorio “C. Beccaria”: è  una  casa di correzione o riformatorio per corrigendi di età inferiore ai 18 anni che, si spera, possano essere recuperati nonostante l’ambiente familiare e sociale corrotti in cui si sono formati sin dalla nascita.

Anche nei confronti della tortura l’autore si mostra contrario: può accadere che anche la persona più integra del mondo, sotto la spinta del dolore fisico e del terrore, confessi crimini che non ha in realtà mai compiuto. La tortura poi è ingiustificata perché si applica ancor prima della condanna: un uomo, infatti, non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice.

Beccaria riconosce la validità della pena di morte in governi decisamente deboli in cui i malfattori compiono tutto ciò che vogliono. Ma, secondo il nostro autore, nel XVIII secolo, con la progressiva affermazione degli Stati assoluti illuminati, la pena di morte diventa inutile: se lo Stato è forte, allora punirà il criminale, il quale, consapevole delle conseguenze, non oserà agire contro le norme, anche in assenza della pena di morte. L’ importante per Beccaria è che le punizioni vengano sempre applicate, altrimenti il cittadino rispettoso della legge, vedendo che i trasgressori non vengono colpiti, comincerà ad odiare la legge stessa e a trasgredirla anch’ egli stesso, sentendosi raggirato dallo Stato cui appartiene.

La pena ha quindi due funzioni: correggere il criminale per riportarlo sulla retta via e  garantire alla società la sicurezza. E le conseguenze non tardarono a comparire … per esempio nel 1786 Pietro Leopoldo aboliva in Toscana la pena di morte. Leopoldo di Toscana era figlio di Maria Teresa d’Austria che, al contrario, appoggiava pienamente la pena di morte, come suo figlio Giuseppe che collocò a capo di Milano, ma quando questa città spettò a Leopoldo egli si trovò in seria difficoltà se mantenere la propria convinzione contraria alla pena di morte o seguire la linea della madre e del fratello.

Lo scritto di Cesare Beccaria non si trovò per nulla allineato con la Chiesa perché è vero che lui difendeva con fermezza la sacralità della vita umana, ma basava tutti i suoi ragionamenti sui fatti in sé non sulla coscienza, per cui la sua opera venne annoverata tra i libri proibiti.

 Nel 1829 esce un capolavoro dello scrittore francese Victor Hugo, appena trentenne, “Memorie di un condannato a morte”, in cui viene descritta l’attesa di sei settimane, prima di salire al patibolo, di un condannato alla ghigliottina.

Durante questa agonia, peggiore della pena stessa, si rovesciano a cascata nell’animo del protagonista emozioni, sensazioni, stati d’animo, sentimenti, ricordi, speranze come quella ad esempio che il suo sacrificio possa un giorno essere utile a qualcuno o a qualcosa…

Del personaggio non si conosce quasi nulla, perché protagonista è il tormento della sua anima.

Non è assolutamente questa la circostanza nella quale impostare un dibattito sulla pena di morte, se sia giusta o no, ci mancherebbe altro, ma piuttosto giova riflettere su come nel XVIII e nel XIX secolo qualcuno già meditasse su un tema oggi così discusso. Hugo era giovanissimo quando scrisse questo romanzo ed è arrivato dritto nella profondità dei nostri cuori con la sua espressione “vendicarsi è un atto dell’uomo, punire appartiene a Dio”.


Receive more stories like this in your inbox