Marco Cavallo libera tutti: era il 25 febbraio 1973 quando il grande cavallo azzurro di cartapesta costruito nell’Ospedale psichiatrico di Trieste da Vittorio Basaglia assieme ad amici, degenti, artisti, infermieri, medici, iniziò a galoppare e a girare il mondo. Franco Basaglia spaccò in quell’occasione con una panchina di ghisa il muro di cinta dell’Ospedale perché Marco Cavallo era così grande che non riusciva a passare attraverso l’uscita normale. Da allora sono cominciati i suoi viaggi nei più diversi Paesi, viaggi da cui sono nati spettacoli, poesie, incontri in cui i singoli contributi e le storie drammatiche si sono fusi in una diffusa creatività.
Il cavallo azzurro diventerà il simbolo giocoso e picaresco di quella liberazione, la cosiddetta Riforma Basaglia, la legge 180 che ha trasformato l’istituzione manicomiale e soprattutto la condizione di molti dei suoi degenti e che non sarebbe stata possibile senza l’impegno di tanti che hanno lottato per essa.
Testimone di una storia e di una memoria che si sta azzerando, Filippo Maria Ferro, acuto e brillante psichiatra con una lunga e divorante passione per la storia dell’arte, quella epica storia ha narrato nell’ambito di un Convegno di psichiatria e psicoanalisi promosso dall’Associazione Dialogos nei locali messi a disposizione dalle Monache camaldolesi sull’Aventino.
Cavallo di Troia al contrario, l’installazione di 4 metri costituì la grande cesura con l’istituzione manicomiale che impediva fino ad allora di vedere la realtà dell’essere umano e la sua sofferenza, malati che non cessano di essere persone e non possono essere ridotti soltanto alla loro malattia.
Sembra un paradosso riunirsi per parlare di follia, ma un confronto si impone a 40 anni dall’ impresa di Franco Basaglia che attraverso la Legge 180/78 introdusse in Italia una significativa riforma sui manicomi e promosse notevoli trasformazioni nei trattamenti psichiatrici. La sua riforma e più ancora il suo lavoro clinico, pratico, teorico, saggistico, intellettuale, politico ha imposto a tutti l’evidenza di capire come il “malato mentale non sia uno scarto dell’umanità, da segregare dalla società e dalla comunità umana, bensì una persona che nella sua temporanea o cronica debolezza conserva, come ogni altra persona in ogni stadio e in ogni condizione, felice o infelice, armoniosa o degradata, piena dignità”.
Il tentativo del Convegno romano è stato quello di aprire uno spazio di approfondimento sul diritto di cittadinanza delle persone con disagio mentale, modificando l’atteggiamento culturale nei confronti di qualsiasi forma di diversità. A introdurre i lavori la musica e la poesia, i piani più rilevanti in cui la follia si mostra con tutta la sua forza dirompente: la poesia con la sua moltiplicazione di senso e la musica con lo scardinamento di ogni senso possibile della lingua e in cui la parola non serve più, affidati la prima al talento di un grande attore Alfonso Veneroso e al teatro della follia dell’Enrico IV di Luigi Pirandello, alla tragedia del vivere di Amleto, alle poesie di Alda Merini, la musica alle voci dei cantanti d’opera Alessia Nobili e Giordano Massaro.
Con l’ avvento della psicoanalisi la follia non costituì più un mondo estraneo, da allontanare, ma un mondo da conoscere e da scoprire. Questo approccio, mettendo in crisi le categorie tradizionali di io e realtà, ha permesso di vedere la follia anche in un’altra prospettiva, come possibile dimensione alternativa di vita in contrapposizione a quella ritenuta “normale”.
La follia può diventare un rifugio rispetto alla sofferenza del vivere, una fuga dalle convenzioni sociali, un modo di vivere affermando la propria diversità e la propria creatività. Deliri, apocalissi culturali e psicopatologiche, creazione di nuovi mondi e distruzione di mondi, fantasmi originari di fine del mondo, tragedia dell’esistere: la fine, la morte abita l’uomo fin dalla nascita, è l’opinione dello psicanalista Lucio Russo che si è concentrato sulla funzione della follia nella cura della schizofrenia. Espressione anche di alcune menti artistiche che difficilmente riescono a far convivere “normalità” e arte, scrittori, pittori, musicisti, filosofi, in ognuna di queste categorie abbiamo esempi di genialità corrotti dalla follia e sono personaggi veri o inventati Orlando e Don Chisciotte, il presidente Schreber, Nijinsky, Artaud, tanto per citare qualche nome. Dalle rovine di un linguaggio distrutto si possono ancora costruire narrazioni che certo modificano la realtà, ma sono pur sempre una comunicazione.
Esistenze mancate o solo aliene da compromessi hanno tradotto disarmonie, marginalità, sofferenza, malinconie, depressioni, in una sorta di personalissima visionarietà emozionale, “I folli si precipitano la dove gli angeli non oserebbero posare il piede” scriveva Alexander Pope . “Trovarsi davanti ad un pazzo, significa trovarsi davanti ad uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto avete costruito attorno a voi, la logica di tutte le vostre costruzioni fa dire Pirandello al suo Enrico IV. Illusione, religione, affermazione della presenza come capacità di esserci, come persone dotate di senso in un contesto a sua volta dotato di senso, riti e magia per riuscire a sopportare una crisi della presenza: su un’attenta rilettura della lezione fenomenologica dello psicopatologo Bruno Callieri a confronto con le idee dell’antropologo Ernesto De Martino elaborate nel libro postumo La fine del mondo, si è soffermato in particolare lo psichiatra Danilo Tittarelli.
A seguire, le attese e puntute provocazioni del filosofo Renzo Mulato che ha parlato di trasformazioni sociali, dell’ abrasione della memoria degli ultimi 30 anni in Italia, fonte di diffusa psicopatologia. Interventi degli psichiatri Roberto Calindro, Corrado Pontalti, Gianluigi Conte, Francesca Ferragine, organizzatrice dell’ Incontro. Introduzione e conclusioni affidate a Pietro Bria, professore di Igiene mentale presso l’ Università Cattolica del Sacro Cuore e membro della SPI.
La follia, costitutiva dell’umano, nasce spesso dall’impossibile sapere dell’uomo su di sé e sul mondo, è il piano della coscienza più profonda di questo impossibile, il tentativo di gettare una sguardo che va oltre l’apparenza che ci angoscia, ci assilla, ci condiziona. E’ già a partire dall’origine della cultura occidentale che l’interrogazione sulla follia è da sempre connessa al dramma e al disorientamento del sapere dell’uomo, Edipo cieco costretto all’erranza e alla solitudine.