In un momento storico come il nostro, nel quale l’arrivismo e la smania di visibilità sono all’ordine del giorno, dovremmo domandarci se un modello pregno di valori come quello di Anna Magnani, che preferì restare fedele a se stessa e al suo pubblico fino alla fine anche quando il mondo del cinema le fece la “guerra”, dipingendola come donna dal carattere “difficile” e mettendola ai margini, valga la pena farlo conoscere alle nuove generazioni.
A quarantatre anni dalla morte, avvenuta il 26 settembre 1973, e sessant’anni dopo la vittoria dell’Oscar, Anna Magnani resta l’attrice più popolare d’Europa, avendo conquistato tutti attraverso le sue interpretazioni indimenticabili: da “Roma città aperta” a “Bellissima”, da “La rosa tatuata” a “Mamma Roma”.
Al contrario, la donna Magnani è rimasta sempre un mistero e negli anni si sono accavallati ritratti distanti dalla persona colta, intelligente, introspettiva, capace di analizzare la società in maniera scientifica, dalla mentalità umana, moderna e controcorrente, quale era.
Il giorno dopo la sua morte, erano centinaia le persone immobili sotto la pioggia. Non c’era nulla da aspettare, ma loro aspettavano.
Alle dieci del mattino di quel 27 settembre 1973, mentre il mondo della politica esprimeva il suo cordoglio, una folla si era riversata davanti ai cancelli della clinica Mater Dei, nel quartiere Parioli, prendendola letteralmente d’assedio. L’istinto popolare prese il sopravvento: le persone erano pronte a buttare a terra il cancello di ferro pur di vedere Annarella. “Fateci entrare!” gridavano. Il direttore della clinica chiamò Valeria, che curava gli interessi dell’attrice. “Signora, che facciamo?” la supplicò. Poi repentinamente il tono di voce divenne perentorio: “Qui bisogna far qualcosa, altrimenti quelli ci demoliscono la clinica!”. La folla si era raddoppiata in poche ore e, di comune accordo con Luca, il figlio, alle cinque del pomeriggio il direttore decise di aprire le porte della camera ardente.
Valeria e la collega Silvana, alle quali chiedeva di andare a vedere ogni suo film in uscita per conoscere la reazione del pubblico, questa volta erano costrette a fare da barriera tra il suo corpo esanime e la gente. Nella stanzetta c’erano solo rose rosse. Lei, truccata amorevolmente da Roberto Rossellini, aveva tra le mani un rosario di corallo rosa; in un angolo c’erano quattro suore vestite di grigio che pregavano. Si assistette a scene deliranti, con le popolane romane che si accalcavano l’una contro l’altra. Una di loro, con il volto rigato dalle lacrime, disse con un filo di voce al figlioletto di due anni che teneva in braccio: “Vedi, bello de mamma? Quella è Anna Magnani”.
La sera precedente, il 26 settembre, per pura coincidenza all’annuncio della sua morte, dal piccolo schermo in bianco e nero il pubblico la rivide tornare al suo antico splendore quando il primo canale Rai trasmise “Correva l’anno di grazia 1870”, diretto da Alfredo Giannetti. La trasmissione toccò una vetta mai raggiunta fino ad allora: quaranta milioni di telespettatori. Lei, per varie ragioni, non l’aveva mai potuto vedere completamente finito e montato: “Lo vedrò alla televisione” disse. “E mi piacerà sapere, dopo, come l’avrà giudicato il pubblico e, soprattutto, come avrà giudicato me”.
Con la sua scomparsa, il dolore maggiore l’avrebbero provato quanti avevano proiettato su di lei la propria adolescenza, scandita dal ritmo sordo e ossessivo della guerra che avrebbero avvertito meno violenta, vedendola riflessa negli occhi della popolana di Roma città aperta, che con il suo sguardo avrebbe materializzato il sentimento in una lezione di vita. Per loro nessuno avrebbe potuto nella tragedia dare un volto alla speranza come lei, che ne divenne l’icona e vi restò fedele per tutta la vita.
Quarantasei anni di carriera, oltre quaranta film, dei quali almeno cinque resteranno di diritto tra i capisaldi del cinema, una galleria di personaggi che raffigureranno la storia del costume, nella faticosa ascesa della donna in una società che l’aveva relegata al ruolo di oggetto di lusso. I tempi e le mode cambiavano, ma la sua coerenza non veniva meno, finendo per prendere dimora in quella nicchia dorata e polverosa dove i fautori del “nuovo cinema” relegavano i vecchi miti, oscurando la sua persona, fino alla morte, che non le permise di vedere il tanto auspicato “nuovo corso” del cinema italiano.
Quando la bara uscì dalla porta centrale della basilica la gente si ammassò e nell’impeto gli agenti di polizia vennero travolti. Dal tempio era impossibile uscire, dalla piazza non ci si muoveva, le viuzze erano ingorgate; qualcuno si sentì male, altri svennero ma rimasero in piedi trascinati dalla massa che si spostava.
Tra i presenti c’era l’amica Marisa Merlini, che per avvicinarsi alla bara venne costretta a farsi scortare dai carabinieri. In quella basilica anche lei pianse lacrime amare, e quando le altre donne si alzarono in piedi, si unì “Nannarella, non ci lasciare!”.
Appena le sue spoglie vennero sollevate sulle spalle dei portatori, avviandosi verso il lungo corridoio tenuto aperto al centro della navata dalle forze dell’ordine, esplose nel tempio un applauso fragoroso. L’ovazione rimbalzò nella piazza gremita di gente, tutti quelli che non erano riusciti a entrare nella basilica, mentre la bara scendeva lentamente la scalinata verso il furgone. Qualcuno voleva toccare anche quello e ci riusciva, altri si contentavano di lanciare un bacio, altri ancora si facevano il segno della croce e sussurravano una preghiera.
Il nome di Anna Magnani rimbalzava. Pareva davvero l’ultima scena di un film. Quando tutto si dissolse in un intimo corteo funebre che l’avrebbe portata al cimitero del Verano, nella piazza ormai sgombra rimasero le corone e una folla che le scrutava attenta, “Dio, come sono belle!”, e leggeva i nomi sulle fasce. Il desiderio era più forte del pudore e le dita si allungarono rapidamente per carpire un fiore. Chi prendeva un bocciolo, chi strappava via senza alcun ritegno un mazzo intero. Il trofeo più bello, un mazzolino di mughetti inviato da Elizabeth Taylor, lo conquistò in tempo un donnone che, a spinte e gomitate, quasi lo divelse dalla cassa.
Anna era morta. Qualcosa era veramente finito.
“Ora non posso più nemmeno pensare di tornare a Palazzo Altieri” ricorda Franco Monicelli “di rivedere quella poltrona su cui lei sedeva. Perché quella casa, quella bellissima casa, senza di lei è morta, non vale più nulla. Come tutte le cose che toccava, che lei abitava, a cui lei partecipava. Erano vive finché c’era lei, senza di lei morivano. Un nostro amico mi ha telefonato oggi e piangendo mi ha detto: “Ora non ci litigheremo più”.
Anche in via degli Astalli 19, a Palazzo Altieri, la sua residenza da oltre vent’anni, era andato qualcuno. Fermo sull’entrata, il custode apriva il battente del portone chiuso in segno di lutto per far entrare e uscire le automobili dal cortile.
Davanti a quel portone, a chi si presentava in cerca di notizie, con malinconica fermezza, il custode rispondeva: “Qui ormai non c’è più nulla da vedere”.