La pubblicazione, la scorsa settimana, dell’articolo su celibe e nubile, dati i tempi e con essi tutte le questioni che si dibattono intorno al matrimonio e alla sua definizione, ha rischiato di sollevare un polverone con diverse reazioni. E non solo di chi serenamente accetta il matrimonio nella sua forma istituzionalizzata, o di quanti, pur negandolo, poi lo vivono in maniera coerente ed originale nelle situazioni praticate di fatto; ma anche, e soprattutto, di quelli che, istituzionalizzato o meno, lo vorrebbero estendere a tutte le possibili condizioni di vita, le più svariate, su cui si anima oggi il dibattito. 
 
Tuttavia, il fatto che l’aggettivo celibe, che indica l’uomo-non-sposato, sia attestato al femminile, contrariamente a nubile, usato esclusivamente per le donne, ha portato qualcuno a proporre, come soluzione più facile, di eliminare dalle registrazioni anagrafiche la differenza tra uomini e donne. Suggerendo perciò di adottare per tutti “il più moderno single”. 
 
E che dire di quelli che hanno rimarcato la discriminazione tra uomini e donne, attiva fino a pochi anni fa, che anche nella pratica comune distingueva le donne tra signorine e signore, mentre gli uomini sono sempre stati semplicemente signori? 
 
Qualcuno ha addirittura sottolineato le implicazioni connotative (nonché i conseguenti risvolti psicologici e comportamentali) che caratterizzano la differenza tra scapolo e zitella. 
Ulteriore discriminazione di genere!
 
 
Ma il linguista si attiene allo studio del fenomeno lingua, nella sua specificità, nella sua dimensione sociologica, nella sua evoluzione storica, nelle sue implicazioni psicologiche, filosofiche ed estetiche. Con questo, senza voler sottrarsi al suo dovere, civico e morale, di portare un contributo al dibattito politico. Le parole, i significati, la connotazione, sono conseguenze, preziose, ma rischiose, dei comportamenti umani.
La loro trasparenza e, a seconda dei casi, l’opacità, determina a sua volta nuovi comportamenti producendo cultura. E qui si inserisce la semantica storica o etimologia che cerca di recuperare il processo di formazione dei significati.
 
Per quanto riguarda il tema odierno cercheremo di vedere dove hanno origine i termini signore, signora, signorina, utilizzati per indicare la persona adulta, caratterizzata nella sua condizione di genere e nella sua posizione di stato.
 
Sulla scia di Benveniste [Emile Benveniste: Il vocabolario delle istituzioni indeuropee (1969) – Tr. Italiana (Torino 1976)], partiremo da marito e moglie (latino: maritus, uxor).  
Se *mari, secondo la ricostruzione del Benveniste, significa “ragazza in età da marito, mari-tus  significherà, provvisto di mari, quindi “colui che possiede una fanciulla”. 
 
A maritus corrisponde uxor.  Uk-sor sarebbe la donna abituale, l’essere femminile al quale si è abituati”. 
Per indicare il padrone di casa – rispettivamente, la padrona – i Romani avevano dominus e domina, conservati nella lingua italiana nella forma don – e, rispettivamente, donna; – e anche madonna. 
 
Mentre da femina (latino: “che è succhiata”, allatta), viene femmina (francese: femme = donna, moglie).
L’uso di signore (sir) – e delle parole derivate signora e signorina – (dal latino senior = più vecchio, anziano) lascia chiaramente intendere la diffusione, all’origine, in una società gerarchizzata, dove cioè al vertice c’è il “più anziano”.
 
La distinzione tra signora e signorina, banalizzazione abbastanza arbitraria, è andata poi a significare (scivolamento di significato) lo stato della donna sposata e della non sposata, arricchendosi di connotazioni a volte negative, che la letteratura frivola delle parodie ci presenta. Vedi l’uso malevolo di zitella (piccola sposa) riservato alle signorine di una certa età.
 
Quando ancora pesavano le implicazioni di carattere sessista della definizione di signora o signorina, era attuale una barzelletta che utilizzava il doppio senso generato dall’errata segmentazione. Essa diceva grosso modo così:
Allo sportello: l’impiegato chiede:
Scusi, signorina o signora ?
S’ignòra !
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