Nell’angusto e disordinato ufficio che in quel tempo serviva da redazione, direzione ed amministrazione a “La Voce d’Italia”, uno dei giornali in lingua italiana che escono a Caracas, il direttore Attilio M. Cecchini, un giornalista che sembra piuttosto, grazie al suo fisico, un rubacuori del cinema italiano, prese a cura personalmente la misteriosa scomparsa dei suoi sette compatrioti. Dopo una riunione non ufficiale col suo capo di redazione, Gaetano Bafile, decise di indagare a fondo per conto del giornale e senza ricorrere alla polizia, finché non avesse scoperto la verità.
Con l’ostinato e minuzioso metodo del giornalista italiano, che è capace di montare un tremendo scandalo partendo da un cadavere modesto come quello di Wilma Montesi, ma che in ogni caso riesce ad arrivare sempre prima dei detectives al nodo del problema, Bafile dedicò parecchie settimane a seguire, passo passo, le ultime piste percorse a Caracas dai sette compatrioti scomparsi. Ma nel 1955, con la città controllata dai 5.000 occhi di Pedro Estrada, le conclusioni a cui giunse il giornalista erano un biglietto senza ritorno verso la morte.
Un funzionario di polizia, che si accorse dei progressi di Bafile nelle indagini, lo prevenne cordialmente: “Non cammini sulla dinamite”.
Il brano che avete appena letto è tratto da uno dei primi libri di Gabriel Garcia Marquez, “Un giornalista felice e sconosciuto”, raccolta di reportage che il premio Nobel per la letteratura recentemente scomparso all’età di 87 anni, scrisse quando era un cronista giramondo e non aveva ancora deciso di dedicarsi alla letteratura. L’Attilio Cecchini di cui parla l’autore di Cent’anni di solitudine è il noto avvocato aquilano, “don Attilio”, penalista di importanza e fama nazionali.
All’epoca Cecchini viveva a Caracas, dove era emigrato nel 1950 insieme a un altro aquilano, Gaetano Bafile. I due avevano fondato un giornale in lingua italiana, La Voce d’Italia, una testata di inchiesta e impegno civile che cercava di difendere i diritti dei tanti emigrati italiani partiti per il Venezuela – allora governato dal dittatore Marcos Perez Jimenez – in cerca di fortuna.
“La misteriosa scomparsa dei sette compatrioti” di cui parla Marquez nel suo articolo era quella di sette italiani, sette siciliani che, si seppe in seguito, nel 1955 erano stati torturati, uccisi e buttati nel fiume Orinoco dagli sgherri di Jimenez in quanto sos-pettati di aver cospirato contro il regime (la notizia andò a finire anche sui giornali italiani proprio grazie agli articoli della “Voce d’Italia”).
Cecchini e Bafile cominciarono a indagare sul rapimento dei loro connazionali e ben presto intuirono come dietro a quella storia ci fosse la mano di Jimenez e dei suoi aguzzini. Dopo alcuni articoli, però, la polizia intimò ai due giornalisti di non spingersi oltre, perché, così fu detto loro, “stavano camminando sulla dinamite”.
Così racconta invece Attilio Cecchini.
“Conobbi Gabriel Garcia Marquez nel 1958, l’anno della rivoluzione venezuelana che spodestò il dittatore Jimenez. Gabo era arrivato da Parigi qualche mese prima, alla fine del 1957. Si era trasferito nella capitale francese come inviato speciale del giornale El Espectator di Bogotà. Quando in Colombia andò al potere il dittatore Pinilla, il povero Gabriel rimase senza lavoro perché il suo giornale, che era un giornale di opposizione di impronta liberale, scomparve. Rimasto disoccupato, iniziò a viaggiare e a gioronzolare per vari paesi, compresa l’Italia, dove tentò di iscriversi al Centro di Cinematografia Sperimentale, a Roma. Da Roma partì di nuovo, destinazione Caracas, e, una volta stabilitosi, cominciò a lavorare per un giornale che si chiamava “Momento”.
Ci conoscemmo subito. All’epoca la capitale venezuelana era sì una città in piena espansione economica – un’espansione favorita dal petrolio – ma era ancora una piccola città e soprattutto era piena di giornalisti, provenienti da tutto il mondo.
Io ero arrivato in Venezuela qualche anno prima, nel 1950, preceduto di un anno dal mio amico Gaetano Bafile, anche lui aquilano, insieme al quale fondai un giornale che si chiamava “La Voce D’Italia”, una testata scritta in italiano che cercava di difendere i diritti degli emigrati italiani. Caracas mi apparve subito come una città turbolenta, piena di contrasti ma anche di passione e di vita, le cose di cui andava alla ricerca Marquez in quel periodo. Lui era un comunista e per questo diventò subito inviso al regime di Jimenez ma va detto all’epoca eravamo tutti sospettati, anche noi della “Voce d’Italia, perché eravamo un giornale antifascista mentre in quegli anni in Venezuela si era rifugiata tutta la feccia della destra europea fascista e nazista.
Con Marquez parlavamo di politica, della situazione dell’America Latina, di emigrazione, di antifascismo e di comunismo. Gabo era giovane, all’epoca aveva trent’anni, ed era molto intelligente e molto simpatico. Una personalità vivacissima, curiosa, dotata di una straordinaria capacità di assimilare e assorbire tutto ciò che le capitava attorno”.
Marquez intitolò il racconto dedicato alla vicenda della scomparsa dei sette siciliani ‘Questi occhi videro sette siciliani morti’.
“Fu grazie a quell’inchiesta – continua nell’intervista Attilio Cecchini pubblicata su News-Town, dove è proposta anche in video) - che si approfondì il nostro rapporto con Gabo. Interessatosi alla vicenda, Marquez ne trasse ben presto il racconto-reportage, che ebbe successo anche in Italia sia grazie alla traduzione che ne fece Feltrinelli sia grazie a un’antologia scolastica nella quale venne inserito. Ed è in quel reportage che Marquez parla di me. Rimanemmo a contatto per tutto il 1958. Poi, nel 1959, ci fu la rivoluzione castrista, che mise fine alla dittatura di Fulgenzio Battista.
Quando scoppiò la rivoluzione, Marquez era già amico di Castro. Si erano conosciuti grazie a un poeta cubano che aveva vissuto a Parigi negli stessi anni di Marquez. Infatti, il regime rivoluzionario lo invitò subito a L’Avana, già nel 1959. Anch’io partii per Cuba, l’anno seguente, sempre come cronista. Una volta a L’Avana chiesi un’intervista a Castro e arrivai molto vicino a ottenerla. Dovetti però rinunciare perché fui costretto a ripartire in fretta e furia per l’Italia.
All’epoca per uscire da Cuba c’era bisogno del visto americano, ma quando mi presentai al consolato me lo rifiutarono perché ero stato segnalato come un antiamericano e un filocastrista, essendo stato, all’inizio, un sostenitore della rivoluzione. Fu allora che persi i contatti con Gabo: dopo l’esperienza della rivoluzione non lo incontrai più”.