Lago di Como (Ph Rene Hartmann | Dreamstime.com)
Il paese di Torno si distende lungo un promontorio, proteso sul lago di Como o Lario. E’ una comunità, che conta oggi circa 1.300 abitanti. 
Le sue origini, remote nei secoli, si rivelano attraverso gli avelli distribuiti all’interno di un fitto bosco, probabilmente sepolcri scavati in massi erratici, vale a dire blocchi di notevoli dimensioni risalenti addirittura all’Era Quaternaria, trasportati qui dai ghiacci. Si tratta di realizzazioni senza eguali in Europa in una terra, che racconta la propria storia anche attraverso i reperti di tombe romane, i resti di mura e fortificazioni medioevali.
 
IL SANGUE DEI MARTIRI
“Qui – spiega don Alberto Pini, parroco di Santa Tecla e Vicario foraneo della chiesa-santuario di San Giovanni Battista – ebbe ad insediarsi anche una tra le comunità cristiane più antiche dell’intera Diocesi di Como. Il Cristianesimo giunse preceduto dalle testimonianze dei martiri”. Ad esempio, San Fedele, soldato romano convertitosi assieme ad alcuni suoi commilitoni e per questo decapitati.
I primi scontri vennero registrati nel 1292 con la contrapposizione tra Guelfi e Ghibellini, contrapposizione che condusse i Tomaschi ad affrontare, armi in pugno, i Comensi: fu l’inizio di una serie di conflitti, poi il saccheggio del 1515 voluto dagli Svizzeri, quindi la distruzione definitiva nel 1522, che cancellò letteralmente il paese. Occorsero una trentina d’anni, per riprendersi dalla devastazione patita.
 
LA STRANA SORTE DI ALEMANNO
La chiesa di San Giovanni Battista, a Torno, viene associata alla sua reliquia più preziosa. Un Arcivescovo tedesco, chiamato Alemanno per le sue origini, di ritorno dalla Prima Crociata, giunse in possesso – come scrive lo storico Primo Luigi Tatti nei suoi Annali sacri della città di Como del 1683 – di “una gamba d’uno de’ Pargoletti innocenti, che l’invidia e crudeltà d’Herode uccise nella nascita di Christo; et un Chiodo di quelli che trafissero nella Croce il Salvatore”.
 
Attraversato il mare Adriatico, era deciso a proseguire per la Germania. Ma, giunto a Torno, venne trattenuto da una violenta tempesta. Riprovò più volte, con eguale esito. Egli cominciò a scorgere, allora, in tutti questi imprevisti un segno della volontà divina, come se Questa gli dicesse di lasciare le sante reliquie della Terra Santa in loco. Ciò che fece, sia pure a malincuore, depositandole nella chiesa-santuario di San Giovanni Battista. Ed il suo viaggio poté proseguire.
 
SIMBOLI E RICHIAMI
Questa chiesa sorge ad est del promontorio che si affaccia sul Lario. E’ per lo più realizzata con pietra calcarea detta di Moltrasio. La facciata presenta una forma a capanna tipica dello stile romanico: sopra l’arco della finestra, v’è un bassorilievo raffigurante una colomba, mentre ci sono due statue dell’Annunciazione ai lati della lunetta dello splendido portale rinascimentale in marmo bianco di Musso, realizzato alla fine del Quattrocento.
 
L’interno della chiesa è carico di significati simbolici e di richiami al mistero della Redenzione. E’ stato pensato sin dall’inizio quale riproposizione del Corpo di Cristo disteso sulla Croce. L’interno della chiesa si presenta ad una sola navata, ampio e maestoso. Il centro dell’abside del presbiterio non corrisponde al centro della facciata, è anzi lievemente spostato verso destra per chi entri, movimento che corrisponde al capo reclinato di Cristo sulla Croce. 
 
Non solo: manca una colonna lungo la navata, per la precisione la terza sul lato destro, entrando. Ciò indica il fianco trafitto di Nostro Signore, dal quale uscì sangue ed acqua, simbolo dei Sacramenti della nostra Salvezza. Il campanile presenta un piano di monofore e due di bifore con piccoli archi decorativi. Sembra lo si possa far risalire al XII secolo.
 
LE SETTE CHIAVI
L’11 giugno 1522 le armate di Como rasero al suolo Torno, profanando le chiese e calando i sacri bronzi giù dai campanili. Uno dei soldati di ventura riuscì ad impossessarsi del Santo Chiodo: portatolo a Bergamo, esso operò anche qui molti miracoli. Ai familiari del militare, tuttavia, iniziarono a capitare avversità inspiegabili, ciò che convinsero l’autore della profanazione a restituire il maltolto.
 
Per evitare il ripetersi di furti analoghi, si decise di custodire la preziosa reliquia in un pesante forziere in legno di noce, lo stesso ove anche oggi si trova. Questo era ed è munito di sette chiavi, ognuna delle quali in possesso del parroco, di famiglie nobiliari e di notabili del posto (solo in epoca moderna, per praticità, riunite tutte nelle mani del solo sacerdote). Il cassone fu poi posto in un vano presente dietro l’altare maggiore (dove è oggi), sottratto alla vista di occhi indiscreti e di malintenzionati.
 
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