In Sicilia fa ancora caldo. Uno di quei caldi irreali per essere i primi di novembre, ma che gli abitanti dell’isola conoscono. Il cielo è terso, l’aria afosa.
Capita che qualche anziana, nelle prime ore del pomeriggio, soprattutto in questi giorni dedicati alla commemorazione dei defunti, si avvii verso i camposanti della Sicilia, un mazzo di fiori sotto il braccio. Non hanno solo i propri cari da salutare: ci sono vecchietti che, spinti dalla compassione, si fermano qualche minuto davanti a tombe senza lapidi.
Sono i loculi che custodiscono i resti degli oltre trecento sventurati, annegati – un mese fa – nel Canale di Sicilia, a poche miglia dall’isola di Lampedusa, in quella che doveva essere la loro terra promessa.
Impossibile pensare di poter dare degna sepoltura a un numero così consistente di morti nel piccolo cimitero dell’isola, baciato dal sole del Mediterraneo.
E così gli annegati del barcone, andato prima a fuoco e poi inabissatosi, sono stati sepolti – in tombe anonime, un semplice numero sulla bara, ignorando giocoforza i loro nomi e cognomi – in tanti, piccoli o grandi, cimiteri della Sicilia. Decine di camion hanno trasportato le bare: alcune di colore marrone, altre, peggio ancora, bianche, a testimoniare che custodivano i resti di bambini. Per giorni interi, in molti cimiteri, da Agrigento ai piccoli paesi sulle colline, è stato un andirivieni di inservienti, muratori. Morire a migliaia di chilometri di distanza, seppelliti in loculi senza nome: così sono stati azzerati i sogni di riscatto di centinaia di sfortunati immigrati.
Gente che sognava di affrancarsi da un destino infame: fuggendo da dittatori, guerre intestine, fratricide, faide, scorribande di banditi. Avessero saputo cosa avrebbe riservato loro il destino chissà se si sarebbero ugualmente imbarcati. Non avevano un nome, solo qualche tratto esteriore. Li hanno semplicemente numerati: senza documenti, ovviamente.
Nazionalità ignota: pelle scura e basta. Sono saliti su un barcone fatiscente, si sono stretti, nella stiva o sotto al sole. Avevano fame, sete. Qualcuno – i più piccoli o i più stanchi – hanno cessato di vivere quando ancora il barcone, seppure ansimante, viaggiava sulle onde del Mediterraneo. Li hanno gettati in mare, senza alcun scrupolo, gli “scafisti della morte”, pasto per i pesci. Gli altri sono annegati perché non sapevano nuotare: molti di loro neanche avevano mai visto il mare. Ignoravano come fosse fatto, i pericoli che custodiva. Abituati magari solo a qualche oasi del deserto africano.
Hanno dato loro sepoltura in forma anonima: nessuno, transitando nei piccoli cimiteri di paese, potrà recitare una preghiera mettendoci un nome davanti. L’odissea dei profughi chissà quando finirà: pure qualche giorno fa le navi della Marina hanno soccorso (stavolta con successo) diversi barconi di immigrati. Un flusso senza fine, ingiusto. Rischiando di morire e di finire dentro una bara senza nome per tombe ignote.