Bread remains a staple of our culinary tradition (Photo: Evgeniy Parilov/Dreamstime)

Today, Italian food is known all over the world and our diet, the Mediterranean, is considered one of the healthiest. The importance we give to tradition in the kitchen is legendary, so it isn’t surprising that so many of our recipes and dishes have a long history behind them.

But things have changed, too.

Economic development, cultural changes and, more recently, globalization, affected the ingredients we use and also the food choices we make daily, but in what way?

Up to the years of the Second World War, people’s diet was very much tied to what agriculture and farming would provide. Our economy was largely based on the primary sector, with industries mainly limited to the northern regions of the peninsula. This translated into a diet made of what was seasonal and available, with an accent on legumes such as beans or lentils, polenta in the North and pasta in the South, fish along the coast and cheese or, more rarely, meat, near the mountains. Bread was the real staple of everyone’s diet: families would buy flour, make their bread and then walk to the village oven to bake it. “Fare il pane” was an important social moment in small rural communities and the village oven a place where gatherings occurred easily.

Meat wasn’t that common on our pre-World War Two tables, with most families eating it only on special occasions. In the countryside, poultry and pork were the most common, with the latter being a real lifeline for many families: in Italian, we say that del maiale non si butta nulla, “nothing of a pig goes to waste,” because of the old tradition of using every part of the animal to make something you could eat, from meat cuts to salumi. Even its blood would go into recipes like sanguinaccio, a spicy sausage that was particularly common in rural areas, and that you can still occasionally find at some butcher’s today.

The War, of course, brought everything to a halt: there were rationings and food, especially in the cities, became suddenly scarce. In those years, it wasn’t unusual for people from villages and towns to go ask for food from friends or relatives living in the country: farmers were lucky because they had a direct source of nutrition they didn’t need to pay for.

The 1950s marked the beginning of Italy’s economic boom and, with it, a change in the way Italians ate. Families’ income increased considerably and we started eating more and in a more varied fashion: for instance, meat appeared on Italian tables more often and no longer only on special days. Fruit and vegetables remained important, and sugar consumption increased, while legumes, la carne dei poveri (“paupers’ meat”), were consumed more rarely. Italians couldn’t get enough meat: poultry, beef, pork, cold cuts of all kinds. You name it, we ate it every week, and meat consumption became synonymous with economic well-being. In this sense, we shouldn’t discount the role of the media, especially television, in the way we chose what to eat, because the advent of commercials made certain products more popular than others, deeply affecting the way families spent their money on food.

Pasta fresca, made the old-fashioned way (Photo: Dmfrancesco/Dreamstime)

The 1980s were a particular moment in our culinary history because that’s when Italy fell in love with American fast food. McDonald’s and its Italian counterpart, the now defunct Burghy, were all the rage among teens, who dreamed of America while having fries and cheeseburgers on Saturday afternoons after school. In the same years, Italy developed a taste for more exotic flavors, too: oriental cuisine, especially Chinese, became popular, with restaurants opening everywhere, thanks to the establishment of a large and well-adapted Chinese community in the country.

The 80s were a time of abundance, but also of culinary change. Because if it’s true that we embraced burgers and international cuisine, we also began paying more attention to our health.

Those years were characterized by more people with high cholesterol, higher incidence of cardiovascular diseases, and the fear of meat-derived illnesses such as the “mad cow” craze: all factors that rose our awareness of the risks of excessive meat and fat consumption. They were also the years when we became conscious that what we have on our plate can affect greatly the environment.

Today, Italians are very much aware of what they eat and do, on average, prefer a healthy and well-balanced diet, something to which, in the end, we are culturally used. There is a sincere interest in sustainability and avoiding waste, and many families learned how to eat local and seasonal. Sales of whole foods increased, especially in the past 20 years, as well as the popularity of health stores specializing in organic produce or “free-from” options.

But while we are certainly more careful with the amount of meat we consume, we remain quite reluctant to become vegetarian or vegan, especially when compared to other countries like the UK or the US. At the same time, even the smallest local supermarkets do offer meat-free products, something that was unthinkable only a handful of years ago.

The way we eat, so, is in continuous evolution. Thankfully, healthy eating is part of our tradition, so we don’t have to go far to find good options!

Oggi il cibo italiano è conosciuto in tutto il mondo e la nostra dieta, quella mediterranea, è considerata una delle più salutari. L’importanza che diamo alla tradizione in cucina è leggendaria, quindi non sorprende che molte delle nostre ricette e dei nostri piatti abbiano una lunga storia alle spalle.

Ma molte cose sono anche cambiate.

Lo sviluppo economico, i cambiamenti culturali e, più recentemente, la globalizzazione hanno influenzato gli ingredienti che utilizziamo e anche le scelte alimentari che facciamo quotidianamente, ma in che modo?

Fino agli anni della Seconda Guerra Mondiale, l’alimentazione delle persone era molto legata a ciò che l’agricoltura e l’allevamento potevano fornire. La nostra economia si basava in gran parte sul settore primario, con industrie limitate principalmente alle regioni settentrionali della penisola. Questo si traduceva in un’alimentazione fatta di ciò che era stagionale e disponibile, con un accento sui legumi come i fagioli o le lenticchie, la polenta al Nord e la pasta al Sud, il pesce lungo la costa e il formaggio o, più raramente, la carne, vicino alle montagne. Il pane era il vero punto fermo dell’alimentazione di tutti: le famiglie compravano la farina, facevano il pane e poi andavano al forno del paese per cuocerlo. “Fare il pane” era un momento sociale importante nelle piccole comunità rurali e il forno del paese era un luogo in cui facilmente ci si riuniva.

La carne non era così comune sulle nostre tavole prima della Seconda Guerra Mondiale: la maggior parte delle famiglie la mangiava solo in occasioni speciali. In campagna, il pollame e il maiale erano i più diffusi, con quest’ultimo che rappresentava una vera e propria ancora di salvezza per molte famiglie: in italiano si dice che del maiale non si butta via niente, per l’antica tradizione di utilizzare ogni parte dell’animale per fare qualcosa da mangiare, dai tagli di carne ai salumi. Anche il sangue entrava in ricette come il sanguinaccio, una salsiccia piccante particolarmente diffusa nelle zone rurali e che ancora oggi si può trovare occasionalmente in alcune macellerie.

La guerra, naturalmente, ha fermato tutto: ci sono stati razionamenti e il cibo, soprattutto nelle città, divenne improvvisamente scarso. In quegli anni, non era raro che gli abitanti dei paesi e delle città andassero a chiedere cibo agli amici o ai parenti che vivevano in campagna: i contadini erano fortunati perché avevano una fonte di alimentazione diretta che non dovevano pagare.

Gli anni Cinquanta segnano l’inizio del boom economico italiano e, con esso, di un cambiamento nel modo di mangiare degli italiani. Il reddito delle famiglie aumentò notevolmente e si iniziò a mangiare di più e in modo più vario: ad esempio, la carne comparve sulle tavole degli italiani più spesso e non più solo nei giorni speciali. La frutta e la verdura rimanevano importanti e il consumo di zucchero aumentava, mentre i legumi, la carne dei poveri, venivano consumati più raramente. Gli italiani non ne avevano mai abbastanza di carne: pollame, manzo, maiale, salumi di ogni tipo. Si mangiava ogni settimana, e il consumo di carne divenne sinonimo di benessere economico. In questo senso, non va trascurato il ruolo dei media, in particolare della televisione, nel modo in cui sceglievamo cosa mangiare, perché l’avvento degli spot pubblicitari rendeva certi prodotti più popolari di altri, incidendo profondamente sul modo in cui le famiglie spendevano i loro soldi per il cibo.

Gli anni ’80 sono stati un momento particolare della nostra storia culinaria, perché è stato allora che l’Italia si è innamorata del fast food americano. McDonald’s e la sua controparte italiana, l’ormai defunto Burghy, erano di gran moda tra gli adolescenti, che sognavano l’America mangiando patatine e cheeseburger il sabato pomeriggio dopo la scuola. Negli stessi anni, anche in Italia si sviluppò il gusto per i sapori più esotici: la cucina orientale, in particolare quella cinese, divenne popolare, con ristoranti aperti ovunque, grazie all’insediamento di una comunità cinese numerosa e ben adattata al Paese.

Gli anni ’80 sono stati un’epoca di abbondanza, ma anche di cambiamenti culinari. Perché se è vero che abbiamo abbracciato gli hamburger e la cucina internazionale, abbiamo anche iniziato a prestare maggiore attenzione alla nostra salute.

Quegli anni sono stati caratterizzati da un maggior numero di persone con il colesterolo alto, da una più alta incidenza di malattie cardiovascolari e dalla paura di malattie derivate dalla carne, come la malattia della “mucca pazza”: tutti fattori che hanno aumentato la nostra consapevolezza sui rischi di un eccessivo consumo di carne e grassi. Sono stati anche gli anni in cui abbiamo preso coscienza del fatto che ciò che mettiamo nel piatto può avere un forte impatto sull’ambiente.

Oggi gli italiani sono molto consapevoli di ciò che mangiano e prediligono, in media, una dieta sana ed equilibrata, alla quale, in fondo, siamo culturalmente abituati. C’è un sincero interesse per la sostenibilità e per evitare gli sprechi, e molte famiglie hanno imparato a mangiare locale e stagionale. Le vendite di alimenti integrali sono aumentate, soprattutto negli ultimi 20 anni, così come la popolarità dei negozi di salute specializzati in prodotti biologici o “free-from”, cioè privi di qualcosa.

Tuttavia, se da un lato siamo certamente più attenti alla quantità di carne che consumiamo, dall’altro rimaniamo piuttosto riluttanti a diventare vegetariani o vegani, soprattutto se ci si confronta con altri Paesi come il Regno Unito o gli Stati Uniti. Allo stesso tempo, anche i più piccoli supermercati locali offrono prodotti senza carne, cosa impensabile solo fino a pochi anni fa.

Il nostro modo di mangiare, quindi, è in continua evoluzione. Per fortuna, il mangiare sano fa parte della nostra tradizione, quindi non dobbiamo andare lontano per trovare buone opzioni!

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