Sulmona (Ph© Adamico| Dreamstime.com)

Non può non apparire strano che una località, alle falde del monte Morrone, sotto l’eremo di papa Celestino V, chiamata da tempi antichissimi “Fonte d’Amore”, sia stata individuata come sede di  un campo per prigionieri della prima e della seconda guerra mondiale.

Donald Jones, nella autobiografia intitolata Fuga da Sulmona, ricorre al classico umorismo inglese scrivendo: “Bel nome per un campo di prigionia!”. Eppure quegli stessi prigionieri della seconda guerra mondiale, reclusi in quel Campo dal numero 78, ricordavano e sottolineavano lo “spirito di Sulmona”,  quello spirito che li teneva uniti, che anche dopo aver riconquistata la libertà cercavano di conservare come stile di vita: “Quello che avevamo era diviso comunemente l’uno per l’altro. Le nostre lettere divenivano di proprietà comune, lette ad alta voce; problemi di cibo, vestiario, freddo, malattia, malinconia venivano risolti tutti quanti da quello che ancora oggi continuiamo a chiamare lo spirito di Sulmona, quello spirito che ci coltivava, ci respirava, ci tirava avanti, quello spirito che ancora ci spinge e ci guida…”

Uno di loro, John Esmond Fox, nel libro autobiografico, Spaghetti e filo spinato, ricostruisce con la tecnica del flash-back la sua avventura di prigioniero di guerra, mentre con la moglie è in visita al Campo 78, nel giugno del 1966, annotando che il mondo sarebbe un paradiso se la solidarietà, l’amicizia, l’ospitalità e la comprensione, trovate e provate in quegli anni e in quel luogo, fossero sempre presenti nel mondo: “È strano rilevare come uomini di varia estrazione sociale, diversi per lingua e costumi, credo e razza, imprigionati per qualche crudele capriccio del fato, dominati con la forza, privati e spogliati della propria individualità, ridotti al solo comune denominatore di esseri umani, siano stati capaci di gettar via l’orgoglio e il pregiudizio per un legame di amicizia… Che miracolo sarebbe se un simile cameratismo o spirito di corpo, chiamatelo come volete, prevalesse nella vita quotidiana. Il mondo allora sarebbe davvero ad un passo più vicino all’ultima Utopia dei nostri sogni più cari”.

Ma era stato William Simpson, dopo la fuga dal Campo 21 di Chieti, accolto e ospitato al Borgo Pacentrano di Sulmona, che nel dopoguerra, in qualità di rappresentante della ASC (Allied Screening Commission), nell’aula comunale di Sulmona, pronunciava queste parole: «Sulmona è stato uno dei pochi centri italiani che si siano veramente distinti in questa opera di solidarietà e di carità cristiana: questa simpatica cittadina, che mi ha ospitato gentilmente sia da prigioniero che da uomo libero, la considero come la mia seconda patria. Sulmona ha salvato dagli artigli germanici ben settemila prigionieri alleati. Difficilmente potremo dimenticarlo».

Le pagine di storia che presentano  la Resistenza Umanitaria hanno come centro la città di Sulmona. È qui che la maggior parte dei prigionieri fuggiaschi trova ospitalità e nascondimento. In particolare il Borgo Pacentrano. Secondo i dati dell’ASC furono 473 i prigionieri ospitati. Un numero assolutamente rilevante per quei tempi, quando la città aveva pressoché raddoppiato il numero degli abitanti, invasa dagli sfollamenti dei paesi vicini.

Le donne ebbero un posto di rilievo nella vicenda dell’aiuto ai prigionieri alleati. Un aiuto che non si risolse soltanto nel dare il pane che non c’era, ma si manifestò concretamente e moralmente grazie a quella solidarietà tipica delle famiglie povere di mezzi ma ricche di affetti, come la descrisse mirabilmente la scrittrice Alba de Céspedes:  “«Entravamo nelle vostre case timidamente: un fuggiasco, un partigiano, è un oggetto ingombrante, un carico di rischi e di compromissioni. Ma voi neppure accennavate a timore o prudenza: subito le vostre donne asciugavano i nostri panni al fuoco, ci avvolgevano nelle loro coperte, rammendavano le nostre calze logore, gettavano un’altra manata di polenta nel paiolo. […] Che cosa non vi dobbiamo, cara gente d’Abruzzo? Ci cedevate i vostri letti migliori, le vesti, gratis, se non avevamo denaro».

È nel calore della famiglia, tra le mura domestiche che si opera la ricostruzione di personalità distrutte da anni di guerra e di prigionia. Trattati nuovamente da esseri umani i prigionieri rinascono a nuova vita. Ricominciano a sperare  e a credere nel loro futuro.

John Furman, nel libro “Non aver paura”, pone in rilievo la dedizione, il sacrificio, l’affetto, dimostrati dalle donne sulmonesi: per tutte basta l’esempio di Maria Santilli, che dedica le sue migliori attenzioni ad un malato di eczema, Gilbert Smith: “Maria era un angelo che avrebbe diviso la sua ultima crosta di pane con un cane affamato”.

Lo spirito di riconoscenza per l’aiuto ricevuto e per la coralità creatasi nel periodo di guerra offre la panoramica di un’umanità  utopica, ideale raggiungibile quando gli uomini abbandonano legami locali e territoriali per sentirsi partecipi della stessa natura, abitanti della stessa casa.

Conflitti tra uomini e nazioni, eccidi e stragi, deportazioni e massacri disumani non fanno parte della natura umana.

L’8 ottobre 1943, un treno con oltre 300 persone indifese, partì dalla stazione di Sulmona, per giungere al campo di sterminio di Dachau. Tra loro una trentina di Roccacasale e un ragazzino di sedici anni, Angelo De Simone, che non tornerà più in paese.

Vita e morte, umanità e bestialità non sono retaggio forzato e destino ineluttabile. Per questo, le testimonianze di quanti si appellano alla dignità umana e ne valorizzano l’importanza sono lezione di vita, anche e soprattutto oggi. I familiari che ricercano le orme di genitori e parenti, sopravvissuti nel periodo di guerra, sono spinti da amore profondo e imperituro. L’amore per l’umanità.

Coloro che, spesso, tornano a Sulmona per ritrovare, conoscere e ringraziare quelle persone e famiglie che accolsero e aiutarono i loro cari, sono degni di stima e di esempio. Commovente la lezione delle tre figlie di Samuel Redden Webster, prigioniero fuggiasco dal Campo 78, arrivate dagli Stati Uniti a Sulmona per rintracciare quelli che aiutarono il loro padre.

Una lista numerosa in questi anni del dopoguerra.

L’arrivo a Sulmona, lunedì 7 maggio, dei due nipoti di Maurice Bartholomew, classe 1915, catturato in Nord Africa il 2 aprile 1941, recluso  al  Campo 78, fuggito nel settembre del 1943, accolto e ospitato in casa di Salvatore Petrilli, è segno di fede in un nuovo mondo. Un mondo in cui Teresa e Andrew, fratello e sorella, che abbracciano Maria Petrilli, figlia di Salvatore, apre la via alla speranza. La lezione d’una memoria che non passa e che resta  impressa nei cuori.


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