Ignazio Silone nacque nel 1900 a Pescina dei Marsi, in provincia dell’Aquila. Il paesaggio e le problematiche sociali delle montagne abruzzesi tra cui l’emigrazione, ritornano sempre nella sua opera. A quindici anni rimase orfano in seguito al terremoto del 1915 che colpì la regione. Da allora, interrotti gli studi liceali, dovette lavorare per vivere.
Il suo romanzo più famoso Fontamara è un libro che racconta le vicende di un piccolo paese della Marsica e i soprusi che subisce la massa contadina del luogo. Viene pubblicato con successo nel 1933 in diverse lingue. Negli anni dell’esilio svizzero 1931-1944, Silone scrive una raccolta di sei racconti dal titolo “Un viaggio a Parigi e i romanzi: Pane e vino e “Il seme sotto la neve”.
“Ai piedi di un mandorlo” apparve nel 1970 in un fascicolo fuori commercio curato dall’editore De Luca e omaggio degli amici allo scrittore per il suo settantesimo compleanno. In esso Silone mette in evidenza il dramma dell’emigrazione che la nostra regione dovette subire.
Ecco cosa scrive:
“Cos’è la particolare tristezza che prova chiunque torni, dopo anni d’assenza, in una contrada ove già visse a lungo, e sosti a osservarvi, non visto oppure non riconosciuto, l’ordinario svolgersi della vita? Sto cercando di capirlo, mentre dall’alto di questa collina contemplo il mucchio di casa grigie e nere del mio paese nativo.
Sono sceso dal treno poco fa e, non portando valige, ho potuto lasciare la stazione alla svelta. All’arrivo c’era poca gente e nessuno mi ha fatto caso. Tanto meglio. Non ho avvertito alcuno del mio ritorno; anche al paese nessuno mi aspetta. Di buon passo ho preso la scorciatoia tra le siepi dei rovi e le vigne, ma nella salita m’è venuto un po’ d’affanno. Eh, non sono più un ragazzo. Nella memoria questo sentiero era meno erto e più lungo. Invece, appena sormontato il piccolo colle, ecco già, di fronte a me, il paese. Esso è apparso all’improvviso, nella sua antica e oscura voragine.
A quella vista non so perché, m’è mancato il respiro e ho rallentato il passo. Mi sono guardato attorno, ho cercato una pietra una zolla su cui riposare. Non ho fretta , dato che nessuno mi attende. Adesso mi trovo ai piedi di un mandorlo, un po’ discosto dal sentiero. Appena alcuni passi più sotto, dove la strada carrozzabile a gomito, si alza la croce che i padri passionisti eressero molti anni or sono, al termine di una loro predicazione di Quaresima. Di qui posso osservare la parte più antica dell’abitato. E’ la prima ora della sera, l’AveMaria dev’essere suonata da poco.
Una leggera nebbia violacea, formata dall’umidità e dal fumo del camini, aleggia sulla fossa del fiume e dissimula, tra le case e le stalle, i vuoti lasciati , circa mezzo secolo fa, dal terremoto.
Vedo una lunga fila di carri, di ritorno dalla campagna, risalire la strada accanto al fiume e smistarsi tra le case. Dalla chiesa escono alcune donne e bambini : sarà in corso qualche novena. Vedo un uomo fermo sulla porta dell’osteria , un po’sbieco , con una spalla appoggiata allo stipite della porta. Non m’arriva però alcuna voce, non il minimo rumore, forse a causa del vento che soffia in senso contrario.
E’ come se assistessi alla proiezione d’un vecchio fim muto, un po’ logoro e con scarsa luce. Di questo angusto luogo , in altri tempi, io conoscevo ogni vicolo , ogni casa, ogni fontana, e quali fanciulle, in quali ore, vi attingessero acqua; ogni porta, ogni finestra e chi vi si affacciasse, in quali momenti. Per una quindicina d’anni questo fu il chiuso periodo della mia adolescenza, il mondo noto e le sue barriere, lo scenario prefabbricato delle mie angosce segrete.
Ma adesso me ne rendo conto, il sentimento che poc’anzi m’ha fermato il passo non è la comune ansietà degli emigrati, né il cruccio o sgomento di certi uomini anziani di fronte al fatale scorrere del tempo; bensì qualcos’altro. Cerco di capire questa realtà che adesso mi sta di fronte , io l’ho portata per tanti anni in me, parte integrante, anzi centrale di me stesso, ed io sentivo in essa, non certo al suo centro, tuttavia, a mia volta, sua parte integrante. Invece , ora che l’ho davanti, essa mi rivela per quello che è , un mondo estraneo, che continua a vivere per conto suo, anche senza di me, nella maniera che gli è propria, con naturalezza e indifferenza. Non diversamente, in altre parole, da quello che mi apparirebbe un formicaio.
Così penso, l’ulteriore svolgersi della vita umana sarà visto, dopo un certo numero di anni, da un morto, se gli è concesso di vedere. Cerco di capire questa realtà che adesso mi sta di fronte, io l’ho portata per tanti anni in me, parte integrante, anzi centrale di me stesso, ed io sentivo in essa, non certo al suo centro, tuttavia, a mia volta, sua parte integrante.
Invece, ora che ce l’ho davanti, essa mi rivela per quello che è, un mondo estraneo, che continua a vivere per conto suo, anche senza di me, nella maniera che gli è propria, con naturalezza e indifferenza. Non diversamente , in altre parole, da quello che mi apparirebbe un formicaio. Così penso, l’ulteriore svolgersi della vita umana sarà visto , dopo un certo numero di anni, da un morto se gli è concesso di vedere.
Seguendo questa riflessione, sento chiarirsi la confusa apprensione di poc’anzi in uno stato d’animo umile e desolato: quello dell’irrimediabile solitudine e precarietà dell’esistenza individuale. Mi chiedo perché sono tornato e penso di ripartire subito. Ma un rumore di passi che si avvicinano mi trattiene. E’ una vecchia donna, vestita poveramente di nero, che porta sulla schiena un pesante fastello di rami secchi.
Cammina curva come una bestia da soma. Uno spettacolo certo non nuovo dalle nostre parti, a mezza costa tra il piano e la montagna. Troppo attenta a dove posare i piedi ella non si accorge di me, che la riconosco. Era una nostra vicina di casa. Un suo figlio, alle scuole elementari, era mio compagno di classe e di giuochi. Quali disgrazie possono averla ridotta in quelle condizioni? Suo marito, i suoi figli non vivono più. Mi alzo per raggiungerla. Forse accetterà di essere aiutata nel trasporto della legna”.