Nato nel New Jersey, a poco più di un miglio di distanza da Frank Sinatra, Robert Santelli è un giornalista, storico del rock & blues e insieme un autore di numerosi testi incentrati sulla storia della musica americana –   The Big Book Of Blues, The Bob Dylan Scrapbook  e  Greetings From E Street: The Story Of Bruce Springsteen and the E Street Band, per citarne alcuni. Nel 1993 è stato responsabile del programma educativo del  Rock and Roll Hall of Fame and Museum di Cleveland e nel 2000  direttore artistico e CEO  del primo museo multimediale della musica – The Experience Music Project di Seattle. Nel corso degli anni ha allestito in giro per il mondo più di 30 mostre e  nel 2006 è approdato a Los Angeles quale direttore esecutivo del Grammy Museum e da allora si  è fatto promotore di importanti workshop musicali dedicati ai giovani artisti, alcuni dei quali in co-produzione con Michelle Obama e la Casa Bianca.
 
Di particolare rilievo è The Music Revolution Project, un corso di perfezionamento musicale che ogni anno si svolge presso la California State University e coinvolge artisti di ogni genere appartenenti alle scuole superiori di Los Angeles. L’intento è quello di favorire l’interazione fra allievi provenienti da diverse discipline della musica, svilupparne il pensiero critico e formare le nuove generazioni  di innovatori della musica popolare, dando loro la possibilità di confrontarsi anche con i grandi artisti che hanno fatto la storia della musica americana.
 
Frank e  Robert, entrambi di origini italiane, hanno condiviso la stessa passione “narrativa” per  il sound americano:  Santelli, raccontandolo e restituendolo agli allori dei “baby boomers” e , Sinatra, eternando lo swing reinventando un nuovo stile comunicativo capace di sopravvivere al tempo e all’impoverimento della cultura musicale odierna. 
 
Dove sono riconducibili le sue origini italiane?
Mio nonno paterno è emigrato in America nel 1930 ed era originario di Torino. Ha incontrato e sposato mia nonna (di origini napoletane) nel New Jersey. Dopo pochi anni dal matrimonio è rientrato in Italia e non è mai più ritornato. I miei nonni materni erano invece di Roma e sono emigrati negli Stati Uniti nello stesso periodo.
 
Che cosa significava all’epoca essere italoamericano? E quali  le eventuali  difficoltà che ha affrontato nell’aperta affermazione della sua identità?
Personalmente non ho avuto alcuna difficoltà. Sinatra è cresciuto invece agli inizi del ‘900, in un periodo storico complesso,  quando c’erano ancora molti pregiudizi nei confronti degli immigrati. Io sono vissuto invece in un quartiere italoamericano, circondato da amici italoamericani. Non ho mai sperimentato ciò che Frank aveva sofferto in quegli anni.
 
Come è cominciata la sua carriera artistica?
Nei primi anni ‘90 ero solito scrivere in qualità di giornalista musicale su una famosa rivista dell’epoca –  Rolling Stone Magazine. In quel periodo, tra le fila del giornale, maturò l’idea del  Rock ‘n Roll Hall of Fame and Museum e cinque scrittori divennero i primi curatori del museo. Ognuno di noi aveva una particolare mansione che rispondeva a specifiche competenze attraverso le quali poi ciascuno ha realizzato la propria mostra all’interno del museo. Nel 1995, mentre alcuni di loro hanno cambiato carriera, io mi sono trasferito insieme a un collega dal New Jersey a Cleveland. E a quegli anni risale la mia transizione professionale: da giornalista a curatore di mostre musicali.
 
Sinatra, an American Icon è la mostra da lei allestita per celebrare il centenario della nascita di The Voice. In che misura l’esposizione di New York differisce da quella di Los Angeles?
Nel complesso la mostra è rimasta la stessa. È stata modificata solo la disposizione perché a New York  avevamo molto più spazio rispetto a LA, ma fondamentalmente non è cambiato niente.
 
Quanto, secondo Lei,  l’evoluzione della tecnologia e il diverso modo di ascoltare la musica hanno portato ad un abbassamento della qualità della stessa e  quali soluzioni eventualmente propone?
Non credo ci sia stata una perdita nella qualità della musica. Credo solo sia cambiata in riferimento alle generazioni passate.  C’è un maggiore uso della tecnologia, più enfasi nel ritmo che  nell’utilizzo della chitarra e della melodia. Detto ciò,  non significa che la musica prodotta oggi sia meno importante o soddisfacente della musica composta 40 o 50 anni fa.

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