I suoi racconti ti entrano nella memoria e nel cuore. La finezza narrativa e le minuziose descrizioni di luoghi e personaggi assumono man mano che le parole scorrono, sembianze concrete, palpabili.
Paolo Rumiz sa appassionare e portare alla luce con chiarezza e disincanto temi eterni quali l’amore, l’amicizia, il dolore, la gioia, la guerra.
Lo abbiamo incontrato al Teatro Navalge di Moena, durante la serata culturale che chiudeva il calendario d’incontri dedicati al Centenario della Grande Guerra. È stato un appuntamento speciale, nel quale abbiamo accolto dalla sua voce un disgiunto realistico di ciò che quell’immane conflitto lasciò nella generazione che lo subì e delle conseguenze che segnano, tuttora, la nostra vita.
Paolo Rumiz è giornalista de “la Repubblica” e del “Piccolo di Trieste”. Con Feltrinelli ha pubblicato numerosi romanzi tra i quali Annibale, L’Italia in seconda classe, Trans Europa Express, Morimondo, Come cavalli che dormono in piedi. A breve uscirà anche negli Stati Uniti il romanzo Trans Europa Express. Vive a Trieste.
Viaggiare per capire, che contrasta con l’attuale desiderio di molti turisti di viaggiare per arrivare. Una filosofia che l’ha portata a scrivere numerosi romanzi e reportage giornalistici.
Da cosa è scaturita questa sua iniziativa?
La voglia di viaggiare e scoprire l’ho avuta sin da bambino e nasce dal nomade insito in me… ogni tanto vuole uscire e pretende degli spazi. Anche la volontà di scrivere fa parte della mia infanzia. Poi ho avuto la fortuna di fare il giornalista e di scrivere per professione. Il fatto di combinare il viaggio alla scrittura è nato per caso. Ogni tanto la vita ti offre delle occasioni per realizzare i tuoi sogni. L’ho colta al volo e sfruttata in pieno. È avvenuto circa quindici anni fa, in occasione del mio primo viaggio a Istanbul. Da quel momento la mia vita è cambiata. È stata un’esperienza talmente ben riuscita che da allora sono “condannato” a ripeterla.
In un suo romanzo racconta il viaggio e l’avventura di Annibale alla conquista di Roma: dalle Alpi lungo la dorsale dell’Appennino. Cosa l’ha colpita dell’animo inquieto di un viaggiatore-condottiero vissuto oltre 1900 anni fa?
Mi ha stimolato che fosse ricordato anche nei luoghi dove non era mai stato, e che fosse stato lui a cercare me. Spiego meglio: ovunque viaggiassi mi trovavo sempre di fronte la sua ombra. Mi sentivo perseguitato dalla sua costante presenza. Quindi ho pensato che forse era un richiamo e l’ho seguito. È stato un viaggio che mi ha profondamente cambiato, perché era la prima volta che mi confrontavo con qualcosa d’invisibile e nel frattempo così potente. Annibale è un mito allo stato puro. Non è stato eretto alcun monumento in sua memoria, eppure è un personaggio che ha costruito intorno a sé una popolarità unica. Ne sono rimasto affascinato, quindi il mio desiderio è stato raccontare il mio viaggio alla sua ricerca.
Il Po, il fiume italiano che ha dato e tolto la vita a migliaia di persone. Nel suo libro l’ha definito abbandonato, sconfitto dall’incuria. Pensa che in Italia ci sia chi ha la volontà/conoscenza per rivalutare questa grande risorsa?
Il Po è circondato da persone che lo adorano, ma sono una massoneria, personaggi nascosti che spesso non sanno l’uno dell’altro. Quindi è complesso capire se c’è questa volontà.
Mi rammarica dire che l’Italia ha una cultura idrofoba nei confronti dei fiumi. Li considera come un pericolo, non una risorsa. Una “scusa” che consente agli speculatori del cemento di imprigionarli sempre più, trasformandoli in killer. Forse non è chiaro che la salute dei nostri fiumi è inseparabilmente legata al nostro futuro.
Grande Guerra: lei ha un nonno che ha vestito la divisa dell’esercito austro-ungarico durante il conflitto. Quali emozioni ha vissuto nel percorrere il fronte a cent’anni di distanza?
C’è una grande discrepanza di volontà nel ricordare e rendere onore ai caduti tra i territori che facevano parte del fronte occidentale e quelli del fronte orientale. In quello occidentale la guerra è molto riconosciuta, come lo è del resto per il fronte italiano (Piave, Carso…), e quasi totalmente assente per il fronte orientale, dove pare si sia preferito “dimenticare”. È stato un percorso impegnativo ma per molti aspetti appassionante. Riportare alla luce le vicende di soldati che nel solo primo mese di conflitto sono morti in oltre un milione, mi ha dato la carica necessaria.
Poi c’è la questione personale. Mi sono sentito in dovere di ricostruire la figura del nonno, di cui non sapevo in pratica nulla (mia nonna ne parlava poco).
Sono dovuto ricorrere a parenti e amici che lo avevano conosciuto, che ora sono ultraottantenni. Seguendo questa strada sono riuscito a ricostruire la sua immagine, anche in modo un po’ fantasioso, ma va bene così.
“Come cavalli che dormono in piedi”. Una raccolta di voci e di testimonianze di una guerra che ha cambiato le sorti dell’Europa, affinché restino indelebili allo scorrere del tempo. Qual è il passaggio che l’ha più commossa?
Tengo a precisare che il titolo nasce dal fatto che i caduti in realtà non sono morti, ma che dormicchino come fanno i cavalli quando riposano in piedi. Questa sensazione l’ho avuta in Polonia, in un magnifico ottobre dello scorso anno. Una terra di cavalli, che ho visto dormire con gli zoccoli affondati nelle brume. Mi sono parsi fortemente rappresentativi di questa metafora.
Il passaggio che più mi ha commosso è stato quando ho trovato un piccolo cimitero nel mezzo dei Carpazi, i cui nomi sulle croci sembravano l’elenco telefonico di Trieste. Nel crepuscolo abbiamo acceso una cinquantina di lumini dei morti, che credo si saranno visti a chilometri di distanza.
Il 27 luglio 2014, anniversario dell’ultimo giorno di pace in Europa prima dello scoppio della Grande Guerra, in tutto il mondo si sono propagate le note del Silenzio. Roma, Mosca, Washington…, hanno reso onore ai caduti e alle famiglie che hanno vissuto un conflitto straziante. L’idea è partita da lei.
È partita da me perché ho sentito la presenza evocativa delle trombe del silenzio sul fronte occidentale. È stata un’emozione tale che ho pensato si potesse riprodurre a tutti i Paesi europei coinvolti nel conflitto. Ho avuto un entusiastico appoggio dal Governo italiano e anche da numerosi trombettisti a partire da Paolo Fresu. C’è chi, però, si è tirato indietro: gli austriaci e i tedeschi perché hanno perso la guerra, i francesi perché non si sentivano abbastanza al centro dell’attenzione. Però si sono aggiunte molte nazioni che non avrei mai immaginato: la Russia, l’America, l’Inghilterra, i Paesi Balcanici, ovviamente l’Italia, e Paesi belligeranti esterni come il Brasile per esempio, che hanno partecipato solo alla fine della guerra che però la considera come un evento centrale. Questa piccola polifonia, ha segnalato anche le differenze che ancora esistono soprattutto in Europa in merito a questa memoria. Rimane però l’amarezza che non sia stato un concerto più vasto.