Chi sceglie di andare a Faenza nei prossimi giorni troverà un centro storico decorato con gli stendardi dei rioni che delineano i confini di quattro dei cinque rioni che fanno parte del Palio del Niballo che si terrà il 26 giugno. Il centro è diviso in quattro e ciascun rione prende il nome da un colore: il Rosso, il Nero, il Verde e il Giallo. Però, come succede spesso in molte città italiane, soprattutto quelle risalenti a molto prima del Medioevo, il quinto rione non si considera parte della città storica.
Fuori delle antiche mura della città della ceramica si trova il Borgo che fino a due anni fa, durante il periodo del Palio si chiamava il Rione Bianco, ma che ora ha ripreso il suo nome storico: Borgo Durbecco. Una scelta compiuta per ufficializzare la propria identità indipendente. Infatti, molti borghigiani non dicono che vanno “in centro” quando vogliono andare al mercato o a fare la spesa, bensì dicono di “andare a Faenza” e nel corso del Palio, questo atteggiamento indipendentista, è motivo di una rivalità spietata tra il Borgo e gli altri quattro rioni cittadini, in modo particolare con il Rosso e il Nero.
L’astio tra il Borgo e i concittadini non è nuovo e fu l’origine di un incidente molto particolare nella città all’epoca papalina. Nel 1824 il Cardinale Rivarola, governatore della Romagna per lo Stato Pontificio, cercò un rimedio alla violenza tra i faentini anticlericali (i cosiddetti sanfedisti) e i borghigiani papali (i cosiddetti papaloni). Perciò decise di sposare dodici faentini con dodici borghigiani, scrivendo persino la musica della cerimonia nuziale. Come descrive Salvatore Balzola nel sito www.historiafaentina.it l’iniziativa del Cardinale non finì bene e sentiamo ancora in questa città gli echi degli scontri secolari durante il Palio.
Dobbiamo riconoscere che le rivalità faentine non sono niente in confronto a quelle tra le contrade di Siena e altre città italiane che riflettono una Storia italiana segnata da scontri tra uno o più gruppi che hanno macchiato il Paese con sangue e fuoco sin da prima dell’epoca romana.
Basterebbe leggere qualsiasi libro scolastico per vedere le guerre degli Etruschi, le lotte tra Orazi e Curiazi, come anche tra monarchici e repubblicani nella Roma antica, per proseguire poi con le lotte micidiali tra Guelfi e Ghibellini che ispirarono la Divina Commedia di Dante e che continueranno poi fino ai nostri giorni.
Da questi conflitti tragici e divisivi nacque un detto tanto famoso quanto triste perché spiega in poche parole l’incapacità nazionale di sapere agire in modo unitario e decisivo: “Con Franza o Spagna purché se magna”.
E’ attribuito al politico e scrittore del primo Cinquecento Francesco Guicciardini (che era stato prima ambasciatore di Firenze in Spagna, presso la corte di Ferdinando il Cattolico e poi, tornato in patria, aveva sostenuto un’alleanza con i francesi per fermare lo strapotere dello spagnolo Carlo V e salvaguardare un po’ di indipendenza della Penisola italiana) e dice in otto parole il motivo per cui l’Italia non riesce ancora oggi a creare una vera identità nazionale.
Non solo ci ostiniamo a pensare ai nostri affari personali prima di quelli del Paese, ma siamo così ossessionati dal nemico in casa che siamo pronti a fare accordi con gli stranieri pur di bloccare il nostro rivale domestico. In questo modo, in quasi ogni decennio di ogni secolo della nostra Storia scopriamo che il nostro amico nuovo è peggio del nostro nemico della porta accanto. Peggio ancora, non ci limitiamo solo al campo politico, ma lo facciamo persino nei campi sportivi e non semplicemente nelle tifoserie calcistiche. Sarebbe facile dire la Juventus contro tutte la altre società di calcio, ma in quel modo scordiamo come per anni l’Italia sportiva era divisa tra chi faceva il tifo per Bartali o Coppi, oppure Saronni e Moser tre decenni dopo.
Sarebbe bello se questo “tifare contro” si limitasse solo alle gare domestiche, ma siamo così convinti dei difetti dei nostri rivali che siamo pronti a festeggiare sconfitte internazionali di squadre italiane. Non scorderò mai la notte del 1998 durante una vacanza in Italia quando non dormii dopo la sconfitta della Juventus contro il Real Madrid in Champions League, non per la sconfitta di per sè, ma per i clienti del bar sotto la finestra della mia stanza da letto che festeggiarono la sconfitta fino alle ore piccole.
Nessuno si sognerebbe mai di proporre di abolire le rivalità interne: non sarebbe normale.
Però dovremmo cominciare a chiederci per quanto tempo dobbiamo continuare ad esportare le nostre rivalità domestiche sui palchi internazionali perché non facciamo male ai nostri rivali internazionali, ma facciamo danno a noi stessi perdendo troppo spesso occasioni importanti sia per il prestigio del nostro Paese, che per la nostra capacità di dare al Belpaese un posto che la nostra Storia, la nostra Cultura e i nostri grandi personaggi di talento potrebbero dare a tutto il mondo.