Chiesa della Mater Amabilis a Ossago  

  Chiesa della Mater Amabilis a Ossago  

Il territorio ha conservato intatta la fisionomia tipica del borgo rurale: il suo centro storico è percorso da vie tortuose che seguono con slarghi e strozzature il perimetro irregolare delle vecchie abitazioni, articolate come un tempo attorno al cortile, perno di tutte le attività. Nelle antiche carte si registra “Orxagum” che potrebbe spiegare l’origine del nome e significare “orso”. Altri credono che nel territorio abbia avuto luogo una battaglia e che dalle ossa trovate, il luogo sia stato chiamato Ossago.

Le prime memorie del luogo risalgono al 972 e ai monaci di S.Pietro di Lodi Vecchio. Dedicata ai santi Gervaso e Protaso, la chiesa parrocchiale è di antica origine ed è un famoso santuario mariano: vi si conserva un’immagine quattrocentesca in terracotta policroma della Mater Amabilis, proveniente della soppressa chiesa di S.Maria in Brera. Il passaggio dell’icona alla chiesa locale avvenne nel 1811. Da allora divenne oggetto di venerazione, intensificatasi a seguito di alcune guarigioni miracolose, accadute dopo il 1923, anno in cui l’immagine venne riportata ad Ossago, dopo un restauro, in solenne processione.

Nell’archivio parrocchiale si conserva la documentazione dei miracoli, attestati dagli ex voto appesi nella cripta, attorno ad una fonte di acqua taumaturgica. La chiesa divenne meta di pellegrinaggi sempre più frequenti, tanto che le esigenze del culto indussero ad un ampliamento, che si risolse in radicale rifacimento. I lavori, iniziati nel 1925 e finiti nel 1957, modificarono del tutto la facciata originaria, di linee settecentesche, sostituendola con un ibrido stile romanico, con rosone e due campanili cuspidati, di cui uno tronco. All’interno la navata è affiancata da cappelle, con gruppi in terracotta che illustrano episodi delle Sacre Scritture e della vita dei santi. Adiacente al santuario fu creato nel 1929 un singolare parco dove sono ricostruiti “al naturale” i luoghi santi della Palestina. 

 La piazza di Paglieta

Il piccolo comune a 235 metri sul livello del mare, si trova sulle rive del fiume Sangro e le sue campagne sono ricche di oliveti e di pascoli. Otre al caratteristico centro storico, si possono ammirare i resti delle mura medievali e alcune torri dello stesso periodo, nonché numerosi reperti di epoca romana che sono stati rinvenuti fortuitamente alcuni anni fa. Le origini del paese sono molto antiche e risulta già abitato in epoca romana. La prima menzione viene documentata sul finire del XII secolo quando viene citata come Palletum e Castrum Palletae, termini che provengono da palea (tipo di foraggio e/o legumi) o da pagliara (casa in argilla, come le case del primo nucleo del paese, di cui gli abitanti vennero dispersi dalle scorrerie dei saraceni).

Nel 1200 venne recintato da poderose mura. Delle antiche vestigia rimangono parte di esse, dei torrioni, l’arco ogivale della porta d’ingresso e la torre campanaria. Già territorio dell’abbazia di San Giovanni in Venere, il Castel-lo di Paglieta diventa feudo (XIII sec.). Dal 1312 al 1533 il paese appartenne a Lanciano, come dono di Carlo V a Rodorico Arripalda di cui condivise le alterne vicende. Nel 1577 passò al feudo di Laura Mormile Pignatelli 1564 al 1799, alla cui famiglia appartenne fino all’eversione della feudalità.

Il paese partecipò ai moti dell’Unità d’Italia con Giuseppe Tretta che fu maggiore garibaldino. Subì l’occupazione delle truppe tedesche prima e di quelle inglesi successivamente, ma senza subire danni nonostante fosse posizionata lungo il tracciato della Linea Gustav. Tra le emergenze del patrimonio ecclesiastico si segnalano: la chiesa di S. Canziano (XII sec. ma rinnovata nel XIX sec.), la chiesa di S. Rocco, edificata nel XVI sec., ma ristrutturata alla fine del XIX sec., la chiesa di S. Maria Assunta in cielo (XVI sec.) all’interno del centro storico, la particolare chiesa di San Vincenzo Ferrer e Sant’Egidio Abate, ultimata ed inaugurata nell’anno 2004, fiore all’occhiello della generosità dei cittadini delle contrade circostanti.

  Castello Branciforte sede del municipio di Raccuja

  Castello Branciforte sede del municipio di Raccuja

L’abitato si erge alle pendici di monte Castegnerazza, immerso in un agro coltivato a noccioleto e oliveto e che ad altitudini maggiori diventa di boschi di conifere. Il comune abbraccia un territorio che dalla bassa collina sale sino a quota 1395 metri nella Serra di Baratta. Il paese sembra quasi “pendere” verso la fiumara, adagiato secondo un asse longitudinale monte-fiume: per questo ha i connotati di un vero e proprio borgo, che dal castello normanno scende sino ai quartieri nobili e all’imponente chiesa madre. Le prime presenze attestabili fanno riferimento ai Bizantini che fondarono il monastero di San Nicolò del Fico, dell’Ordine di San Basilio, e un presidio militare sul luogo dell’attuale centro abitato.

Nel 1271 il centro compare in un atto col nome di Raccudia. L’egemonia della contea raggiunse l’apice quando, a metà del XVII, il conte di Raccuja fondò il paese di Bagheria, appellandolo col nome di “Raccuja Nuova”: in quell’occasione molti si trasferirono nella città nuova, diffondendo nel palermitano il cognome “Raccuia”. In periodo risorgimentale in paese si formò un importante ceto di aristocratici e proprietari terrieri che dopo il 1866 (anno della chiusura dei conventi e dell’incameramento dei loro beni da parte del nuovo stato italiano), si spartirono gli immensi possedimenti ecclesiastici.

L’assetto urbano si presenta articolato in strette viuzze. La porzione centrale, oltre a costituire un ibrido architettonico, punteggiata com’è da chiese medievali, resti di torrioni normanni, insieme a sontuose dimore cinquecentesche e palazzi in stile neo-rinascimentale (XIX secolo), è attraversato da ampie seppur tortuose vie, e si apre in piazze e slarghi, spesso in corrispondenza di chiese o sull’area degli antichi giardini nobiliari, ormai sostituiti da lastricati e piazze pubbliche. Da notare la splendida piazza 25 Aprile circondata da imponenti palazzi del seicento, che si fregia di una raffinata scalinata settecentesca, interamente in arenaria.


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