Da qualche tempo invio alla redazione de L’Italo-Americano articoli di etimologia e semantica storica riferite al lessico italiano, articoli che settimanalmente vengono pubblicati nella sezione (in italiano) “Heritage” sotto il titolo “Questione Di Parole”.
Si tratta di una qualificata presenza di carattere popolare, e culturale insieme, che divulgando la conoscenza di alcuni aspetti della linguistica, cerca di mantenere saldi i legami con la parlata dei padri tra chi ancora la pratica correntemente. Nello stesso tempo ne illustra aspetti culturali della civilizzazione. Lo scopo dichiarato di questa attività è quello di spiegare perché si usano certe parole e come esse hanno acquistato il significato col quale le usiamo oggi.
Si sa, inoltre, che nel tempo la pratica costante della lingua comporta una trasformazione delle strutture, e fonetiche (modificazione dei suoni significativi), e morfosintattiche (trasformazioni delle forme grammaticali), e semantiche (adattamento del loro significato: cioè di quello che esse vogliono dire; o meglio di quello che noi vogliamo dire). È quello che si chiama “evoluzione della lingua”.
E così si rende necessario far comprendere, e spiegare laddove possibile, anche il meccanismo che governa i fenomeni evolutivi. Ciò allo scopo (fin dove possiamo arrivare, naturalmente. Lo ripeto!) di rendere trasparente la lingua che usiamo. “Non è che con una lingua opaca si comunichi di meno”. (Anche questo l’abbiamo ripetuto tante volte e anche scritto nella dichiarazione programmatica. E lo ribadisco qui). È solo che con la lingua trasparente si ha una migliore comprensione delle cose di cui si sta parlando. Perciò si esercita un controllo maggiore sulla realtà, controllo indispensabile alla comprensione dei fatti e alla formulazione dei giudizi.
Oggi, come indicato nel titolo dell’articolo, intendo parlare di “oratorio”; e del senso che la parola acquista in riferimento all’oggetto indicato (il “referente”: cioè la cosa che normalmente chiamiamo “oratorio”) per fare alcune considerazioni sulla portata, sulla storia, sulla funzione, di questa istituzione. Per dare al lettore che mi segue un minimo di formazione (arricchimento culturale e umano) oltre alla scontata informazione.
Nelle aree dove questa parola è usata (cioè, dove la tradizione dell’oratorio si è radicata) l’oratorio è il Centro parrocchiale o Centro Giovanile dove si pratica la pastorale giovanile: una struttura residenziale diurna, bene attrezzata, che ospita tutte le attività orientate all’educazione della gioventù.
Oratorio, secondo il vocabolario Devoto e Oli, è “il luogo sacro destinato al culto e riservato a determinate persone o comunità”. E credo che ci possa bastare. Ma subito aggiungiamo la parte di significato che ci siamo formati nella testa attraverso l’uso di questa parola, e il contatto con l’oggetto che essa indica.
A mano a mano che si andavano organizzando servizi sociali, educativi, e ricreativi, per la gioventù, per i gruppi, o per le famiglie, “oratorio” per noi è divenuto, per estensione, anche l’insieme degli spazi attrezzati dove queste attività si svolgono (il Centro giovanile). Col rischio di perderci, della parola, il suo originario significato. Cioè che l’oratorio si costruisce intorno ad una chiesa, o ad una cappella, o anche ad una semplice sala-riunioni dove poter pregare.
“Oro/orare”, verbo latino, significa “parlo, invoco, supplico”. Dal verbo deriva una serie di parole che ancora usiamo, tra cui: oratore (colui che tiene un discorso) e orazione (discorso pubblico, ma anche preghiera). In ambiente cristiano orare è pregare.
Chi ha una reminiscenza di latino ricorderà le espressioni: “ora pro nobis” (prega per noi!) delle litanie; ma anche “ora pro nobis peccatoribus” (prega per noi peccatori) dell’Ave Maria; o “orate fratres” (pregate, fratelli!), l’invito rivolto ai fedeli dal sacerdote prima di iniziare la preghiera eucaristica della celebrazione della messa; o anche “ora et labora” (prega e lavora!), il significativo motto benedettino consegnato ai monaci come emblema di una regola di vita.