Ha barcollato una, due volte prima di accasciarsi definitivamente sul terreno di gioco. E così, dopo mezz’ora dall’inizio di Pescara-Livorno, gara del campionato di calcio di serie B, allo stadio Adriatico è andata in scena una macabra morte in diretta.
 
Piermario Morosini, ventiseienne centrocampista del Livorno, è morto così, tra uno spasmo ed un altro. Solo l’autopsia chiarirà l’esatta diagnosi di un evento che ha scosso l’intero Stivale e non solo perché la fine ingiusta è stata puntualmente ripresa dalle tv. Un infarto, la rottura di un aneurisma cerebrale, chissà.
 
La realtà è che le morti degli atleti – di coloro, ovvero, che, per la professione che svolgono, dovrebbero essere monitorati maggiormente rispetto agli altri – si stanno dilatando. Non si muore solo sui campi professionistici della serie B di calcio. Si perde la vita giocando a basket. Oppure a pallavolo, come testimoniato dalla recente morte di Bovolenta, ex-azzurro olimpico.
 
La Federazione Italiana Gioco Calcio ha indetto immediatamente lo stop dei campionati. La serie A recupererà la giornata mercoledì 25 aprile, le tv hanno subito modificato i loro palinsesti, altrimenti dominati, la domenica, dai programmi relativi agli highligts del pallone. Resta la morte di un ragazzo, drammatica e ingiusta. Morosini cercava nel pallone un’ancora di salvezza e di riscatto nell’ambito di una vita oggettivamente difficile e complicata.
 
Nel giro di tre anni aveva perduto la mamma, il fratello (suicidatosi) e il papà. Le restava una sorella, anch’essa afflitta da problemi motori. Una famiglia disgraziata: Morosini accudiva ciò che restava del suo nucleo girovagando per l’Italia. Era cresciuto nel vivaio dell’Atalanta, poi aveva preso la valigia, risalendo lo Stivale. Udine, Bologna, Reggio Calabria, Vicenza.
 
A fine gennaio era arrivato a Livorno, una città che ama il pallone visceralmente. Tre anni fa aveva anche partecipato alla fase finale degli Europei Under 21, svoltisi in Svezia. Non era un campione ma un ragazzo perbene, segnato dagli oltraggi della vita e del destino baro.
 
La sua morte ha riacceso i riflettori sui controlli medici che, chi pratica sport, sostiene. Per carità, ci sono state morti in campo in Spagna, Belgio, Portogallo e due settimane fa un giocatore del Bolton, nella Premier League inglese, è stato colto da infarto in campo, poi sopravvivendo. La fine di Morosini ha riportato indietro nel tempo: negli anni Sessanta, a Cagliari, il centravanti della Roma, Taccola, se ne andò in circostanze ancora misteriose.
 
Anni più tardi ecco il decesso del perugino Curi, nel mezzo di una partita contro la Juve. A Manfredonia, negli anni Novanta, andò decisamente meglio: il caso volle che quel pomeriggio, a Bologna, ci fosse un defibrillatore che gli salvò la vita. Ma, adesso, i casi si moltiplicano. Nel calcio che conta e in quello delle retrovie, dei campionati dilettantistici. Ecco perché la morte di Morosini ha riaperto il dibattito: sono veramente controllati a dovere gli sportivi praticanti?
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