Se il tema delle migrazioni rimane cruciale nel paniere mediatico dell’Italia e dell’Europa che perde una stella, dopo il referendum sulla Brexit che ha fatto traballare tanto il sentimento europeo quanto i mercati finanziari, i cui contraccolpi sono difficili da immaginare, va detto che non tutti i flussi hanno pari dignità, adeguata attenzione e giusta reazione.
 
Di migrazioni si parla in termini emergenziali, dichiarando crisi umanitarie, prospettando nuovi muri e barriere con fili spinati, mostrando giungle di tende e campi esposti alle intemperie in cui vivono ammassati e senza diritti minimi ed essenziali centinaia di migliaia di persone. Se ne parla con ansia, spesso ingiustificata, manipolata, esagerata, soprattutto con l’arrivo dell’estate e l’aumento delle partenze dalle terre dei conflitti e delle miserie.
 
Se ne parla tanto ma lo si fa giustamente perchè è necessario non abbassare mai lo sguardo sulle richieste umane, non sfuggire mai lo sguardo di chi sta affrontando fughe disperate.
Non lo si può fare per coscienza ma non lo si può fare nemmeno per storia. 
 
Proprio noi italiani che siamo partiti ai quattro venti, andando in tutte le direzioni, invadendo qualsiasi continente, ogni città a Nord e a Sud del mondo, a Est e a Ovest della Terra, in tutte le epoche della nostra storia tanto pre-italiana quanto post-unitaria.
 
Biblioteche intere ci raccontano come vennero trattati i nostri connazionali, i sacrifici patiti, le umiliazioni subite, le condizioni inaccettabili cui fummo sottoposti e a cui ci sottoponemmo pur di coltivare il nostro sogno di una vita nuova o perchè, comunque, non c’era più la possibilità, la forza, la volontà di tornare indietro, per orgoglio, vergogna, paura di rifare un altro viaggio disperato.
 
Ci sono centinaia di diari pieni di aspirazioni e tristezza, migliaia di lettere e cartoline che nascondono il volto ma non i sentimenti di chi ha vissuto l’emigrazione, milioni di racconti e fotografie ingiallite che hanno narrato ai discendenti le traversie patite, le ingiustizie sofferte e i torti inflitti, anche dal fuoco amico di connazionali senza scrupoli. 
Miliardi di sogni infranti o realizzati sono passati attraverso questi viaggi della speranza che hanno portato il mondo a contare 80 milioni di oriundi italiani nei quattro angoli del pianeta. Più di quanti non ne vivano oggi nella Penisola.
 
Di migrazioni si parla anche in termini strutturali perchè periodicamente ci ricordano che l’emergenza, proprio per definizione, dura poco. Non è un caso che davanti ai telegiornali non ci si fermi più con la stessa attenzione emotiva di vent’anni fa, quando l’arrivo di un solo barcone con il suo carico di volti stanchi, di braccia in cerca di aiuto, di corpi stremati dalla fame, dalla sete e dalla paura, funzionava come un sasso lanciato nello stagno delle coscienze collettive. 
Tutti a guardare, ascoltare, cercare di capire, magari di mobilitarsi e intervenire. 
 
Oggi che siamo abituati a quei gommoni, che per legge abbiamo chiamato clandestini uomini e donne che sono stati costretti a partire, a lasciare tutto, a non portare con sè nulla, nemmeno abbastanza acqua per dissetarsi durante le traversate, non ricordiamo nemmeno di aver sentito parlare, nell’ultimo tg, di un nuovo sbarco a Lampedusa, dell’ultimo naufragio con centinaia di vittime, del soccorso in mare di donne che hanno partorito con l’aiuto della Guardia Costiera. 
 
Ma non tutti i flussi migratori sono uguali. 
 
Consideriamo questi come un problema, un fastidio da chiudere in centri di accoglienza perchè altri se ne occupino, un costo per il Paese, una concorrenza interna e indesiderata al posto di lavoro.  
 
Consideriamo invece i nostri emigrati all’estero, migliaia ogni anno, una fonte preziosa per l’economia, i nostri ambasciatori nel mondo, preziosi cervelli in fuga, ponti e strumenti di crescita per il Paese. Ci scandalizziamo ancora di come milioni di loro furono malamente trattati dai Paesi di arrivo e ci vantiamo di quanti riuscirono ad emergere nonostante tutto. Proprio per questo passato, uguale al presente, non si dovrebbe accettare una simile disparità di trattamento.
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