Il 1° maggio si celebra la festa del lavoro e sul calendario il santo in rosso è Giuseppe artigiano. Un giorno all’anno, tutti gli anni, dedicato ai lavoratori, al rispetto per chi con il proprio operato contribuisce a far crescere, giorno dopo giorno la nazione, secondo le proprie attitudini, capacità o secondo quale occupazione la vita gli riserba.
Non tutti gli anni, invece, si celebra la festa del S.S. Crocifisso a Calatafimi, in provincia di Trapani, famosa anche perché Garibaldi vi vinse la prima battaglia con i suoi “Mille” e vi pronunciò la famosa frase: “Qui si fa l’Italia o si muore”.
Dal giorno 1 al 3 maggio, con cadenza irregolare, la cittadina dedica questi primi tre giorni del mese – solitamente dedicato alla Madonna – al Santissimo Crocifisso.
Le celebrazioni sfarzose avvengono ogni 3, 5, 7 anni e sono l’occasione per i cittadini di ringraziare, anche in modo ostentato per le proprie ricchezze, con l’orgoglio del proprio lavoro e la gioia di vivere, il S.S. Crocifisso, in quella che è anche la festa di primavera.
Fu nel 1657 che il simulacro ligneo, legato più volte dal priore della chiesa di Santa Caterina d’Alessandria nella cui sagrestia si trovava con una fascia chiamata “zagarella”, per le tante cadute per terra, essendogli stato attribuito il miracolo della guarigione di un paralitico, gli furono consacrati un altare e una cappella per costruirgli, infine, una più grande chiesa a lui dedicata.
Fu già allora che il vescovo di Mazara del 1657 autorizzò la prima processione per trasportare, appunto, nella nuova cappella il crocifisso.
Come ha scritto lo storico ed etno – antropologo Giuseppe Pitré le celebrazioni si effettuavano ogni dieci anni prima e, a partire dal 1800 ogni cinque, a seconda delle risorse economiche di cui potevano disporre gli organizzatori.
I cittadini che partecipano alle celebrazioni sono divisi in “ceti” e sfilano durante i tre giorni della festa. Al loro passaggio lanciano confetti, fiori e “cucciddati”, un tipo di pane votivo a forma di corona o di sole, preparato con farina e olio, offerta più che significativa al Dio dell’abbondanza.
I ceti godono ognuno di un vero e proprio statuto e al termine di ogni celebrazione, rinnovano i loro amministratori. Un tempo numerosi, oggi i ceti più importanti sono: la Maestranza, i Borgesi, i Massari e i Cavallari.
La Maestranza ha nel proprio stendardo ricamata l’iniziale del nome di Maria e l’Ostia d’oro indicando così le sue devozioni primarie. Sfila in testa al corteo marciando e portando come simbolo la tipica arma del Cinquecento, l’alabarda, perché costituiva, nel passato, la “milizia urbana”, e i militi erano armati per autorizzazione – essendone dipendenti – delle autorità cittadine. Quando nel 1573 si temette un assalto delle trireme turche, fu la Maestranza ad avere assegnato il compito di proteggere la città e a tale scopo si radunò sul Monte Tre Croci.
I Borgesi sono i rappresentanti dei coltivatori diretti e partecipano a tutte le feste religiose del territorio. Il loro vessillo mostra l’immagine del S.S. Crocifisso con spighe, fiori e ramoscelli di ulivo e uva.
In occasione della Festa in onore del S.S. Crocifisso offrono uno splendido spettacolo presentando “la Cavalcata”, sfilata con i muli elegantemente addobbati, loro inseparabili e indispensabili compagni di lavoro. Le regole del loro statuto sono singolari specialmente per la nomina dei nuovi “Dubbitati” (deputati) che si svolge, dopo la mezzanotte e segretamente, al termine della festa.
I Massari o Massarioti – da sempre il ceto più ricco si occupavano da sovrintendenti dei feudi di riscuotere gli affitti delle greggi e delle imprese cerealicole; in seguito sono divenuti ricchi borghesi che governano le masserie con i loro buoi e le loro pecore.
Caratteristica del loro corteo è un imponente carro tirato da buoi che distribuisce al passaggio i “cucciddati”, in ricordo della distribuzione dei pani che un tempo, durante la festa, veniva fatta ai poveri.
I Cavallari, devoti a Maria S.S. Di Giubino, sempre partecipi delle celebrazioni mariane e curatori dell’organizzazione – ogni estate – di un sabato nel santuario di campagna, hanno nel loro stendardo l’effigie della Madonna di Giubino. Sono i portavoce dei valori e dei temi dell’artigianato siciliano che interpretano sfilando sui carretti siciliani.
Minori, ma pur sempre presenti, sono presenti alle processioni altri ceti.
La Sciabica, nome di origine araba, indica la rete in cui finiscono i pesci, così come essa raccoglie tutti coloro che non appartengono a un ceto specifico. È il più giovane tra i ceti e il suo stendardo di velluto rosso riproduce da un lato la Madonna di Giubino con la scritta “Madre e Gloria del Popolo di Calatafimi”, dall’altro il volto del S.S. Crocifisso con la scritta “Gesù Crocifisso proteggi il tuo popolo”.
I Commercianti, nato da pochi decenni, dopo gli anni quaranta e a seguito dei cambiamenti dovuti alla guerra ogni anno, il 3 maggio, offrono al termine della Festa i giochi pirotecnici.
Gli Ortolani o Iardinara, già inseriti negli archivi del 1689, hanno rappresentato nel vessillo Gesù dell’Orto degli Ulivi e sfilano su due file portando ognuno di loro una candela in una mano. Al centro di queste due file un ragazzo porta un’asta alla cui cima si trova una piccola urna che contiene San Palinu.
Il ragazzo muove un marchingegno che a sua volta fa muovere il santo dando l’impressione che questi si chini per piantare degli ortaggi. Il “Cassiere” chiude il corteo portando in mano la caratteristica coppa del ceto.
Fiori vengono lanciati da fanciulle e fanciulli che, in abiti da ortolani, si trovano sul carro addobbato con ortaggi vari e fiori, regalando un’immagine bucolica di virgiliana memoria.
I Borgesi di San Giuseppe sono votati al santo di cui portano il nome e lo lodano cercando di imitarne lo stile di vita. Solenni festeggiamenti gli vengono tributati innalzando un altare fatto di pani e distribuendo i cucciddati casa per casa. Per la festa del Crocifisso sfilano con lo stendardo che raffigura la “Sacra Famiglia” e “Lu Circu”(mezza sfera ricoperta di cucciddati) mentre distribuiscono a chiunque si trovi nei paraggi “li panuzzi (piccoli pani) di San Giuseppe”.
I Mugnai rappresentano un mestiere ormai scomparso, ma continuano ad andare in processione i figli e i nipoti di coloro che lavoravano ai mulini ad acqua – ed erano 15 a Calatafimi – posti lungo il fiume Kaggera (Crimiso era il suo antico nome).
Nel 1776 fu da loro donata una croce d’argento al S.S. Crocifisso. Da allora ogni anno, il pomeriggio della Domenica di Pasqua portano la “Santa Cruci” d’argento alla Chiesa della Madonna del Giubino e gli altri ceti si riuniscono intorno a loro portando i loro stendardi.
Il primo giorno della celebrazione sfilano con la croce santa distribuendo per le vie del paese le “Milidde” (tipo di pane). Una croce ricamata in oro zecchino risalta sul loro gonfalone.
Anche il ceto dei Macellai ha nel proprio stendardo di velluto rosso, a coda, una croce ricamata in oro. Piccolo come numero di partecipanti, ma dal 1727 sino ad alcuni decenni fa, onoravano il S.S. Crocifisso con due tarì (antica moneta) per ogni animale da macello.
In coda alle due file di componenti il ceto, il Presidente sorregge la coppa, il “ Presenti” (dono , presente), colma di monete d’oro.
Pecorai e Caprai, un tempo separati oggi uniti nello stesso ceto, sono protetti i primi da San Pasquale Baylon che è rappresentato nel loro stendardo in adorazione al S.S. Sacramento e da San Gregorio (detto in siciliano Vivroli) i secondi.
Nel loro passaggio per le vie cittadine distribuiscono formaggi freschi e alcuni tra i giovani portano appeso alla cintura “U circu”(cerchio) che trattiene formaggi lavorati a forma di pecorelle, ceste e altri oggetti. Quattro giovani in abiti folcloristici portano a spalla due pecore di legno ricoperte di monete e una piccola urna con San Pasquale.
Qal’at Fimi, Calatafimi, questo il nome che ha il significato di “Rocca di Eufemio” dal nome del suo antico signore.
Un antico castello annuncia il paese che avrebbe amato vivere in riva a quel meraviglioso mare Mediterraneo su cui si affaccerebbe, qualora il suo signore non avesse temuto attacchi pirateschi per cui lo volle a monte e ben protetto da un maniero.
Un tutt’uno con Segesta, vanta uno tra i più bei templi greci dell’antichità e tra una colonna che si erge alta, ancora intatta, e l’altra, si può scoprire un popolo antico ricco di tradizioni alle quali – per nostra fortuna – non ha rinunciato.