Gli aggettivi possessivi trovano stretta corrispondenza con i pronomi personali. Per chi ha poca dimestichezza con la nomenclatura grammaticale, precisiamo che i pronomi personali sono quei pronomi che accompagnano il verbo quando questo non ha un soggetto determinato: essi sono io, tu, lui/lei; noi, voi, essi/esse; loro; e simili). 
 
E se si chiamano personali non è perché essi si devono riferire forzatamente a persone umane, ma solo perché hanno una stretta corrispondenza con le “persone del verbo” (1°: io, chi parla. 2°: tu, che ascolti. 3°: un’altra, diversa da noi due. Ecc., ecc.). Ora le persone del verbo, a parte la prima e la seconda – già un po’ meno –, la terza non è necessariamente una persona fisica, ma può essere qualsiasi soggetto (o oggetto). 
 
La stessa cosa vale per le tre plurali, noi, voi, essi/esse.  Se trovo un’espressione del tipo: “Io vedo” (prima persona), io (lettore o ascoltatore), come ricevente del messaggio, anche se non diretto destinatario, devo supporre che quell’io (“Io! Vedo”) sia un parlante, cioè un essere in grado di parlare (o di pensare, e di scrivere); perciò, una persona reale. E se non lo è nel vero senso della parola, come succede nelle favole, lo dovrà essere almeno come personaggio della finzione letteraria. 
 
In questo caso significa che chi sta parlando (o scrive e racconta) può far parlare un animale o una pianta, o una pietra, ecc. 
 
Allora siamo già nel patto letterario tra scrittore e lettore. Infatti, se ci dicono che la volpe e il corvo parlano come si racconta nelle favolette, noi lo accettiamo senza discussione; e andiamo avanti. In questo senso, “io” oppure “tu” designano delle “persone”, cioè dei personaggi, sebbene appartengano al mondo della fantasia. Per questo motivo possiamo continuare a parlare di pronomi personali. 
 
Ma per i pronomi di terza persona lui/lei; essi/esse/; loro; dobbiamo fare una distinzione. 
Sono persone quelle che fanno le azioni proprie delle persone, mentre tutti gli altri soggetti possono essere di qualsivoglia altra natura. Nonostante ciò, tutti i pronomi di terza persona (cioè quelli che accompagnano le terze persone del verbo, li continuiamo a chiamare pronomi personali.  Solo l’uso o il contesto ci danno ragione della realtà, anche se la lingua ha specializzato alcune forme per indicare la differenza tra persone reali e persone grammaticali, come ad esempio: egli o lui opposto ad esso; ella o lei opposto ad essa; ecc.
 
 
Ma ritorniamo agli aggettivi (o pronomi) possessivi. Se una cosa appartiene a me, o a te, o ad un altro, ad un’altra, oppure a noi, o a voi, o ad altri, noi diciamo mio o mia, miei o mie ( se – poniamo – è un libro, oppure una penna; più libri o più penne), tutte forme che stanno al posto di “di me”. Così al posto di “di te” diciamo tuo o tua, tuoi o tue; come pure per dire “di lui o di lei” diciamo suo o sua, suoi o sue; mentre per dire “di noi” diciamo nostro o nostra, nostri o nostre; e, analogamente, per dire “di voi”, diciamo vostro o vostra, vostri o vostre. Ma per dire “di essi, di esse” – ecco la stranezza – diciamo semplicemente “loro” (anche se qualcuno dice anche “di loro”). 
 
Facciamo una veloce ricapitolazione: io, me, di me sono forme del pronome personale. La stessa cosa: tu, te, di te; o lui, lei, di lui, di lei; oppure  noi, di noi; o anche voi, di voi; e, per concludere, essi, esse, di essi, di esse. Sono invece aggettivi (o pronomi possessivi): mio, mia, miei, mie, tuo, tua, tuoi, tue, suo, sua, suoi, sue, nostro, nostra, nostri, nostre, vostro, vostra, vostri, vostre. E loro? Che cos’è “loro”? Perché loro non ha le forme per il singolare e il plurale, il maschile e il femminile. Perché è indeclinabile? (Così si dice!).
 
Ed eccoci arrivati al fondo della questione. 
Nella lingua latina, quella che parlavano gli antichi Romani, e dalla quale poi è nata la lingua italiana, esisteva una parola: “illorum” ( = genitivo plurale maschile del pronome dimostrativo ille, ella, illud) equivaleva a: “di quelli”. Il corrispondente femminile era illarum, e corrispondeva a “di quelle”.  
 
Ora dobbiamo supporre che nell’evoluzione linguistica la maggiore ricorrenza delle forme maschili abbia oscurato l’uso della forma femminile, e che i parlanti abbiano semplificato l’indicazione del possesso riferito alle terze persone plurali del pronome personale, dicendo “illorum” per ovviare alla complessità dell’uso dell’aggettivo possessivo specifico. 
 
Non vorrei dilungarmi oltre, ma dirò solo che nel caso delle terze persone i Romani distinguevano la proprietà di una terza persona soggetto della frase, dalla proprietà di una terza persona diversa dal soggetto della frase. Facciamo un esempio: “La mamma dice a Maria di rassettare la sua camera”. 
 
Chiunque può notare che in questa frase il possessivo “sua” può creare qualche incertezza interpretativa. Ebbene i Romani avevano l’espressione giusta per indicare se la camera era della mamma stessa oppure di Maria.
 
Perciò, per evitare non tanto l’equivoco quanto la complessità richiesta dalle due forme espressive il parlante comune, a mano a mano che perdeva la trasparenza linguistica, preferì dire: “di questo”, oppure “di quello”; “di questi” oppure “di quelli” (illorum), usando il pronome dimostrativo al posto dell’aggettivo possessivo. Da qui, per tutti i motivi che abbiamo indicato, da illorum venne fuori la forma: “il loro”.  

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