Roy Lichtenstein (© Alain Lacroix| Dreamstime.com)

Raffinato e metodico. Se dovessimo racchiudere in due soli aggettivi il percorso artistico di Roy Lichtenstein, credo senza dubbio che questi sarebbero i più intrisi di significato. E la mostra presso il MUDEC – Museo delle Culture di Milano, accompagnata da un catalogo edito da 24 Ore Cultura, lo dimostra.

La lunga ricerca dell’artista newyorkese (1923-1997), basata sulla riproducibilità meccanica dell’immagine come fonte di ispirazione, viene analizzata attraverso 100 opere (tra stampe, anche di grande formato, sculture e arazzi) provenienti dalla Roy Lichtenstein Foundation, la National Gallery of Art di Washington, il Walker Art Center di Minneapolis, la Fondation Carmignac e Ryobi Foundation, Gemini G.E.L. Collection), oltre a video e fotografie. Il tutto suddiviso in 8 sezioni.

Si inizia con le “Immagini Epiche”, in cui sono esposte prevalentemente xilografie e litografie, ma anche un bellissimo tappeto con intreccio a pelo lungo (Amerind Landscape Tapestry datato 1979-85), tutti tesi a testimoniare come negli anni ’50 Lichtenstein perfezionò le tecniche di riproduzione meccanica tradizionali apprese a scuola, quando non considerava ancora il printmaking un linguaggio visivo comparabile con la pittura, ma piuttosto come un momento scolastico di distrazione. Il fascino degli indiani d’America era irresistibile ai suoi occhi: “Max Ernst realizzò alcune immagini di nativi americani. Negli anni ’50 io realizzai alcune opere su questo tema che presentavano delle somiglianze con le immagini suddette… [Queste] erano variazioni in stile cubista, che utilizzavano temi dei nativi americani. Diciamo che, in un certo senso, come Picasso utilizzava elementi africani, l’America utilizzava oggetti dei suoi nativi. Tuttavia, io ero ancora così profondamente influenzato da Picasso e dall’Espressionismo che realizzai le mie cose ‘a dispetto di’, anziché in ragione dei temi dei nativi”. Successivamente la nascita del movimento Red Power, un rinnovato attivismo sociale e politico dei nativi, coincide con l’interesse di Lichtenstein, verso la fine degli anni ’70, per le decorazioni e i motivi che caratterizzano la loro cultura, ovviamente riletti in chiave Pop.

Questo passaggio è fondamentale per comprendere fino in fondo “l’americanità” di Lichtenstein, da cui non si è mai più discostato, ma che anzi ha continuato ad esaltare anche nell’elaborazione degli “Oggetti Quotidiani” e negli “Action Comics”, come evidenziano le seguenti sezioni della mostra milanese, a cominciare dall’Hot Dog del 1964 o le coeve Turkey Shopping Bag e Sandwich and Soda. Quello che accomuna tutte queste opere è la continua, incessante, ricerca ed attenzione nei confronti del medium pittorico e del supporto, sia che si tratti di smalto porcellanato su acciaio, come nel primo caso, o di una serigrafia su sacchetto in carta (nel secondo) o su plastica trasparente (nell’ultimo).

In Mirror #3 e #4 (1972) la sperimentazione della goffratura su serigrafia si fa concettuale: lo specchio in realtà non riflette alcunché e mancando alla sua funzione diviene un oggetto astratto. La sezione sicuramente più “riconoscibile” è quella degli “Action Comics”. Come afferma Lichtenstein: “Le strisce dei fumetti, di per sé, sono comprese all’interno della sequenza di una storia. Io, però, mi focalizzo solitamente su un’unica immagine e, in questo modo, questa immagine contemporaneamente comunica e, tuttavia, non comunica. Sembra far parte di una storia, ma non si conosce realmente l’argomento della storia. Una parte è divertente, ma l’altra è una sorta di realismo che deriva dall’aspetto lineare dell’opera, dal blow-up e dalla curiosità su un tipo di lavoro particolare”. Di forte impatto Pistol (1964) e Thunderbolt (1966), due striscioni in feltro concessi dalla Sonnabend Gallery di New York, e Reflections on Minerva (1990), una litografia, serigrafia, rilievo e collage su PVC metallizzato.

Nella successiva sezione, “Figure femminili”, si ripercorre il modo in cui la donna viene percepita nel contesto socio-culturale americano tra gli anni ’60 e ’90. Se nei primi anni ’60 in opere come Foot Medication Poster (1963) Lichtenstein ritrae una casalinga felice in un habitat di benessere materiale, in sintonia con gli stereotipi dell’epoca, mentre negli anni ‘90 le sue donne sono ritratte in una sfera intima, sia da sole (Nude Reading, 1994) che in coppia (Two Nudes). A fungere da spartiacque, i movimenti femministi degli anni ’70.

Dal punto di vista della sperimentazione la sezione “Paesaggio” è la più interessante, perché è qui che compaiono le strabilianti serigrafie su Rowlux, un tipo di plastica lenticolare che suggerisce un’idea di movimento all’osservatore che le gira intorno. Così ne parla Lichtenstein: “Il Rowlux è proprio un materiale interessante, ha una qualità riflettente in grado di simulare il cielo, o l’acqua, sia l’uno sia l’altro, poiché è amorfo. È una specie di natura già pronta. Sembra avere profondità, il che lo rende simile all’acqua vera o al cielo reale. Dato che fa convergere l luce, si ottengono riflessi brillanti che fanno sì che le immagini siano più simili a paesaggi reali che a superfici dipinte… come acqua vera, che riflette la vera luce del sole. Un modo molto conveniente di riprodurre il cielo o l’acqua”. Seascape (1964), una serigrafia, Seascape II, un collage dell’anno successivo, o Landscape II (1967) in cui il Rowlux è unito al Mylar, altro materiale sperimentale, ne sono degli esempi.

I Brushstrokes caratterizzano la sezione dedicata all’”Astrazione”, sia nella versione bidimensionale, xilografica o serigrafica, sia scultorea. Ancora le parole di Lichtenstein: “La mia ‘pennellata’ si compone di centinaia di piccoli tocchi, che sembrano, nel risultato finale, un segno singolo. […] Sono impressionato da quanto le cose possano sembrare artificiali. Cerco la massima stilizzazione che mi riesca – non cerco di essere stiloso. La mia recente scultura di una ‘pennellata’ è il tentativo di dare una forma stabile a qualcosa che avviene nel momento, di dare solidità a qualcosa di effimero, di renderlo concreto. La pennellata, la pennellata del pittore resa bronzo! Mi piace quest’idea”.

Nella sezione “Interiors” ritorna la vita quotidiana, stavolta riproposta con ambientazioni inanimate e inabitate, metafisiche, come The Oval Office (1992) o Red Lamp (1990). Chiude la mostra la sezione “Avant Guarde”, in cui Lichtenstein si confronta con i Maestri delle Avanguardie del ‘900, primo su tutti Monet, nella Cathedral Series (1969). La facciata della cattedrale di Rouen, riproposta in altrettante versioni in giallo, blu e rosso, testimonia l’incessante desiderio sperimentatore di Lichtenstein. “Il mio modo di fare Impressionismo è una modalità industriale – o qualcosa di simile – una modalità simile a quella che avrebbe una macchina – una modalità tecnica. Però, probabilmente, il tempo che mi serve per realizzare una cattedrale o un covone è dieci volte superiore a quello che impiegava Monet. […] Certo i miei quadri sono diversi da quelli di Monet, ma anche loro hanno a che fare con il cliché impressionista di non riuscire a leggere l’immagine da vicino – diventa più chiara man mano che te ne allontani. […] Il mio lavoro non riguarda la forma. Riguarda il vedere”. E ancora Picasso, Dalí, il Bahuhaus, Calder e Chagall: continui spunti di riflessione per un artista che con atteggiamento ludico ed innegabile eleganza, ha attraversato il secolo scorso.

La mostra “Roy Lichtenstein. Multiple Visions” resterà aperta al pubblico fino all’8 settembre 2019. Orari: lunedì 14,30-19,30; martedì, mercoledì, venerdì e domenica 9,30-19,30; giovedì e sabato 9,30-22,30.
MUDEC, via Tortona 56, Milano. Info: www.mudec.it

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