L’Aquila, capoluogo dell’Abruzzo, è da sempre la città dove l’acqua è di casa. Forse non tutti sanno che il nome stesso, ‘Aquila’, a dispetto di una diffusa opinione che vuole che provenga dal maestoso rapace simbolo imperiale del presunto fondatore, Federico II, deriva da “aquola”, che altro non è che il diminutivo della parola ‘acqua’.
Non a caso L’Aquila, un tempo ‘Aquila degli Abruzzi’ (l’articolo, fonte di sgrammaticature, è stato apposto con regio decreto nel 1939, e avrebbe più senso se riferito all’uccello), è la città della fontana delle novantanove cannelle: novantanove – secondo la leggenda – come le piazze, le fontane, i rioni che la compongono e i castelli che la fondarono.
L’Aquila, come è storicamente noto, è una “città di fondazione”, nata per il concorso dei castelli disseminati su un vasto territorio; castelli i cui abitanti, nella stragrande maggioranza, pur continuando a vivere nei villaggi di provenienza (extra moenia), vollero lasciare all’interno delle mura cittadine (intra moenia) un quartiere che, con una piazza, una fontana e una chiesa, perpetuasse la memoria del borgo fondatore.
La città, come è noto, risale al XIII secolo, allorché, volendo dare unità civica ai tanti castelli, i feudatari imperiali della zona, in lotta contro l’imperatore Federico II di Svevia (1194-1250) decisero di accogliere la proposta di papa Gregorio IX (al secolo Ugolino dei Conti di Segni, pontefice dal 1227 al 1241), di creare un nuovo insediamento “ad locum Acculae”, vale a dire nei pressi dell’abitato di Acculae, un piccolo centro ai piedi del versante settentrionale dell’attuale Monteluco, luogo assai ricco di acque poco distante dal sito oggi occupato dalla menzionata Fontana delle Novantanove cannelle, monumento-simbolo del capoluogo abruzzese in tutte le guide turistiche e che nei caldi giorni d’estate, nonostante l’emergenza sanitaria, anzi forse proprio a motivo della forzata clausura dei mesi passati, ha fatto registrare una grande affluenza di turisti.
La nuova città sorse a partire dal 1254. Appena cinque anni dopo, Manfredi (1232-1266), figlio di Federico II e di Bianca Lancia (incerti i dati anagrafici) la distrusse, in quanto città di parte guelfa, cioè legata al papa. Giova ricordare che dal secolo XII era iniziata la nota contrapposizione tra il “partito” dei guelfi e quello dei ghibellini. I guelfi, sostenitori, al contrario dei ghibellini, della supremazia del papa nei confronti dell’imperatore, prendevano il nome da Welf, capostipite del casato dei duchi di Baviera, in lotta contro gli Svevi del casato di Hohenstaufen, (da cui era uscito Federico Barbarossa, nonno di Federico II), che dal nome di un loro castello in Franconia si denominavano signori di Waibling, anticamente Wibeling, (da qui il termine italianizzato di ‘ghibellini’).
La città fu riedificata da Carlo d’Angiò (1226-1285) unendo i due feudi di Amiternum e di Forconium (Forcona). Da allora L’Aquila divenne sempre più grande e sempre più ricca, a motivo delle sue industrie della seta, dei merletti, della lana, del cuoio e dello zafferano.
Questo notevole sviluppo economico fece da sfondo ai molti monumenti di prestigio che sorsero entro le mura cittadine o poco discosti da esse, quali le chiese di San Silvestro, del Duomo e di San Bernardino, il Castello cinquecentesco e, sopra tutti, la magnifica basilica di Santa Maria di Collemaggio. Quest’ultima, con la sua meravigliosa facciata ricca di tre portali e tre rosoni e tappezzata di pietre rosa e bianche secondo una sapiente geometria, con il suo interno luminoso e mistico, è da considerare il tempio più rappresentativo di tutta l’architettura abruzzese.
Fu edificata anche per volontà di quel Pietro da Morrone (1209/10-1296) che vi sarà incoronato papa nel 1294 con il nome di Celestino V e che volendo legare in eterno il suo destino a quella che considerava la sua città, sapendola dilaniata dalle lotte intestine, le volle concedere quella Bolla della Perdonanza, che da allora conserva valore universale di pace e di perdono.