“Fatta l’Italia, bisogna fare gli Italiani,” famously said Massimo D’Azeglio shortly after the unification of Italy. And he was right: in those faithful last decades of the 19th century, when Risorgimento reached its apogee and political ideas of unity and romanticized nationalism were all the rage in the peninsula, not many considered how culturally and linguistically varied the people of Italy were.
The country was one, but what about its customs and, more than anything else, what about its language? Yes, Italian is ancient and beautiful, but it was then far from being the only language spoken: the north-west had French and its dialects, mostly Piedmontese and Ligurian (both possibly closer to French than Italian), the South had its many idioms, Sardinia had a language of its own. Of course, all Italians learnt Italian in school, but how many did actually spoke it then?
You would be surprised to know that only a little percentage of “Italians” actually favored Italian on an everyday basis, a bit as you may see today in rural communities, where many prefer the dialect and only switch to Italian when writing or speaking to people they do not know. Believe me, it does still hold true: my very own father prefers speaking in Piedmontese when in company of his friends, and only switches to Italian when necessary. I also have Sicilian friends of my own generation who commonly speak among themselves in dialect, something we 30-something northerners, however, no longer do.
Beware, though, this does not mean Italians are not proud of their own language, and now there is even a study saying it.
Let me start from the beginning. Have you ever wondered what makes you American? Or Italian-American? Or Italian? The question was at the root of a project carried out by the Pew Research Centre, a non-partisan institution based in Washington D.C., focused on social matters, public opinion and demographic trends.
Researchers were interested, in particular, on the factors people believe to be more defining that others in creating national identity. Curiously enough, the majority of Italians (59%) said language is the true identity definer. More than being born on Italian soil, even though a still high slice of Italians (42%) associated birth to the idea of nation, more than in other places like Germany or Australia, where it reached less than 20%.
Commentators at the Pew Research Centre have pointed out how, when it comes to birthright, the highest European percentages come from countries – Hungary, Greece and Italy – which have been facing enormous issues related to uncontrolled migration. To contextualize the data better, think that in the US, 32% of citizens see birthright as relevant to truly being American, 70%, on the other hand, consider knowing the national language as fundamental.
If it is true that language is seen as a main identity-yelding factor in Italy, the percentage is rather low when compared to that of the US or, in Europe, of places like the Netherlands or the UK, where it rises over the 80% mark.
Why then, language is considered important to create and maintain national identity, but not as much as in other countries in the world? I believe the answer should be sought in the very presence and high popularity, at least in certain parts of the country and among specific demographics, of regional dialects. Dialects are as much as a cultural signifier in many areas of the country as Italian itself is: literature, music and even movies are produced in dialect. Think of Neapolitan melodic songs, for instance, which are popular everywhere in the country still today, or of the immense success of novelists such as Camilleri, father of our beloved Commissario Montalbano, who make large use of dialectal and colloquial expressions in their works. I wonder if even more Italians would have chosen “language” as a determining factor, if dialects were considered in the question.
Whichever way we look at it, the fact is linguistic expression remains crucial in Italy to define identity, even if percentages may be lower than in other countries. There is a profound tie between Italy and its language, because Italians are born communicators: writers, poets, orators, they have always been known for excelling at creating with words and this is where, it seems, Italy’s national love for language may be rooted into.
It is not simply knowing Italian that makes you Italian, it is the act itself of creating with words, of moulding reality with speech as much as a sculptor does with stone. Language in Italy is a “matter” to make art with and much more than a simple way to communicate, it is a manner to express culture, tradition and yes, also national pride. “This happens in all countries” you may say, and you would be right. But, believe it or not, it does not stand true anywhere as much as it does in Italy.
“Fatta l’Italia, bisogna fare gli Italiani”, notoriamente disse Massimo D’Azeglio poco dopo l’unificazione d’Italia. E aveva ragione: in quelle ultime decadi piene di speranza del 19° secolo, quando il Risorgimento aveva raggiunto il suo apogeo e le idee politiche di unità e nazionalismo romantico erano l’ultima moda nella penisola, non molti consideravano quanto culturalmente e linguisticamente fossero diverse le genti d’Italia.
Il paese era uno, ma che dire dei costumi e, più di qualsiasi altra cosa, della lingua? Sì, l’italiano è antico e bello, ma era molto lontano dall’essere l’unica lingua parlata: il nordovest aveva il francese e i suoi dialetti, soprattutto il piemontese e il ligure (entrambi possibilmente più vicini al francese che all’italiano), il Sud aveva i suoi tanti idiomi, la Sardegna aveva una sua lingua propria. Certo, tutti gli italiani imparavano l’italiano a scuola, ma quanti poi lo parlavano davvero?
Vi sorprendereste nel sapere che solamente una piccola percentuale di “italiani” davvero usavano l’italiano quotidianamente, un po’ come oggi si può vedere nelle comunità rurali, dove molti preferiscono il dialetto e passano all’italiano solo quando scrivono o parlano con persone che non conoscono. Credetemi, questo è ancora molto vero: mio padre stesso preferisce parlare in piemontese quando è in compagnia dei suoi amici, e passa all’italiano solo quando è necessario. Io ho anche amici siciliani della mia generazione che normalmente parlano fra loro in dialetto, cosa che noi trentenni settentrionali, comunque non facciamo più.
La maggioranza degli italiani (59%) ha detto che la lingua è ciò che davvero definisce l’identità, più dell’essere nati sul suolo italiano
Attenzione, però, questo non significa che gli italiani non sono orgogliosi della loro lingua e ora c’è anche uno studio che lo conferma.
Permettetemi di cominciare dall’inizio. Vi siete mai chiesti cosa vi rende americani? O italo-americani? O italiani? La domanda era alla radice di un progetto sviluppato dal Pew Research Centre, istituzione imparziale di Washington D.C., concentrata sulle questioni sociali, l’opinione pubblica e i trend demografici.
I ricercatori erano interessati, in particolare, ai fattori che la gente crede siano quelli che definiscono più di altri l’identità nazionale. Abbastanza curiosamente, la maggioranza degli italiani (59%) ha detto che la lingua è ciò che davvero definisce l’identità. Più dell’essere nati sul suolo italiano, anche se una fetta ancora alta di italiani (42%) associa la nascita all’idea di nazione, più che in altri luoghi come la Germania o l’Australia, dove raggiunge meno del 20%.
Gli analisti del Pew Research Centre hanno indicato che, quando si parla di diritti di nascita, le percentuali europee più alte vengono da paesi – Ungheria, Grecia ed Italia – che stanno affrontando problemi enormi dovuti alla migrazione incontrollata. Per meglio contestualizzare i dati, si pensi che negli Usa il 32% dei cittadini considerano il diritto di nascita fondamentale per essere veramente americano, il 70% invece considera fondamentale conoscere la lingua nazionale.
Se è vero che la lingua è considerata il fattore principale che definisce l’identità in Italia, la percentuale è piuttosto bassa se comparata a quella degli Stati Uniti o, in Europa, a quella di luoghi come i Paesi Bassi o il Regno Unito dove sale oltre l’80%.
Perché allora, la lingua è considerata importante per creare e mantenere l’identità nazionale, ma non tanto quanto negli altri Paesi nel mondo? Credo che la risposta dovrebbe essere cercata nella presenza e nell’alta popolarità, almeno in certe parti del Paese e in specifiche demografiche, dei dialetti regionali. I dialetti sono significanti culturali, in molte aree del Paese, tanto quanto l’italiano stesso: la letteratura, la musica e anche il cinema sono prodotti in dialetto. Si pensi alle canzoni melodiche napoletane, per esempio, che ancora oggi sono popolari dappertutto nel Paese o il successo immenso di romanzieri come Camilleri, padre del nostro amato Commissario Montalbano, che si avvale di molte espressioni dialettali e colloquiali nei suoi lavori. Mi chiedo se anche più italiani avessero scelto la “lingua” come fattore determinante, se i dialetti fossero presi in considerazione.
In qualunque modo la guardiamo, resta il fatto che l’espressione linguistica è cruciale nel definire l’identità in Italia, anche se le percentuali possono essere più basse che negli altri Paesi. C’è un legame profondo tra l’Italia e la sua lingua, perché gli italiani sono nati comunicatori: scrittori, poeti, oratori sono sempre stati conosciuti per eccellere nella capacità di creare con le parole e in questo, sembra, potrebbe essere radicato l’amore nazionale per la lingua.
Non è semplicemente conoscere l’italiano che ti rende italiano, è l’atto stesso di creare con le parole, di modellare la realtà con il discorso così come fa uno scultore con la pietra. La lingua in Italia è una “questione” d’arte ed è molto più che un semplice modo di comunicare, è una maniera di esprimere la cultura, la tradizione e sì, anche l’orgoglio nazionale. ”Questo accade in tutti i Paesi” potete dire, e avreste ragione. Ma, che mi crediate o no, non è così vero come lo è in Italia.
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