Making potato gnocchi. Gnocchi are one of our cuisine's most traditional dishes (Photo: Antonio Gravante/Dreamstime)

We will remember 2023 as the year when Italian cuisine finally applied to become part of UNESCO Intangible Cultural Heritage, as well as the year of that Financial Times article. Indeed, In the same week we announced a bid to have our beloved cuisine recognized by UNESCO, food historian Alberto Grandi stirred controversy on the pages of the popular British broadsheet, alleging that some of Italy’s most iconic dishes are not authentic. 

The article, penned by Marianna Giusti, and titled Everything I Thought I Knew about Italian Food is Wrong, challenges some commonly held beliefs about Italian cuisine. Grandi says that many Italian “classics” are, in fact, modern inventions, using pizza, carbonara, and panettone as examples, claiming that most Italians had never heard of them until the 1950s. He also argues that Wisconsin parmesan is a perfect modern substitute for Parmigiano, something that must have certainly made all supporters of the “Italian sounding” industry very happy. Words are also spent on Luca Cesare‘s view about carbonara, presented in his book A Short History of Pasta: carbonara is “an American dish born in Italy.” Negative reactions came quickly, with Italian agricultural organization Coldiretti calling the article “a surreal attack” with “a worrying economic and employment implication.” 

Yet, Italy’s UNESCO proposal highlights the close connections between culture, food, and lifestyle in a “mosaic of traditions” passed through the generations, and I believe that, at least in the Financial Times article we are discussing, Grandi fails to recognize that. The article bypasses the essence of Italian food culture, missing two critical elements: context and the “big picture.”

Grandi’s view seems narrow because it overlooks the vast array of dishes and recipes that make up its cultural heritage: in the end, the history of Italian food is not confined to a bunch of well-known stereotypes. Our cuisine is a tapestry of creativity, cultural exchange, and local ingredients that showcase the country’s culinary diversity. For example, Sicilian cuisine blends Middle Eastern and North African flavors into its dishes, while the northern regions celebrate rice and cheese-based dishes that reflect their agricultural heritage. Limiting our food’s multifaceted nature and connections with history, reducing it to a mere collection of popular dishes, is to do it a disservice.

The article also suggests, we said, that many so-called “Italian classics” were unknown to the masses until recently. Well, this is true, but presenting the idea without contextualizing can be misleading: we shouldn’t forget the fact that, until the 1950s, Italy — and the world — was a much more insular place. It was only after the Second World War that TV became a household item and supermarkets became ubiquitous, which meant that people had access to a wider variety of products. The economic boom of the 1950s and 60s fundamentally changed the country’s economy, which moved away from being an agriculture and region-based reality, to becoming a more industrial and trade-based one. And while this shift led to the overall availability of many ingredients and dishes that were previously unknown to the general public, it doesn’t mean Italian cuisine didn’t exist before then, or that its cultural significance should be disregarded.

Mozzarella has been produced in Italy for centuries (Photo: Elena Elisseeva/Dreamstime)

In other words, Grandi’s viewpoint appears to be based on an incomplete outlook on Italian cuisine, because it focuses on a narrow selection of dishes and ingredients, and forgets the regional diversity, cultural exchange, and history that make Italian cuisine so special. And while Grandi’s arguments are a testament to the socioeconomic changes that took place in Italy during the 20th century they fail, in my opinion, to capture the essence of the country’s food culture.

One could argue that, by pointing out the diversity of Italian cuisine, I’m only proving Grandi’s point. After all, if we consider Italian food to be a collection of regional dishes, then our cuisine is not truly unified, besides that handful of things — which Grandi identified clearly — known and consumed everywhere, from North to South. And while his considerations say a lot about the socioeconomic development of the country — namely, that the economic boom made us a nation more than the ideals of Risorgimento — they seem to neglect the varied nature of Italian cuisine, its ties with the territory and its history, and its community-making value. They forget food, in Italy, is everywhere a source of pride and joyful unity, perhaps the only thing that, in essence, really connects people across different regions and generations.

And so, while I respect Grandi’s expertise on Italian cuisine, I tend to disagree with his idea of it, or at least, with the idea he expressed in the pages of the Financial Times. Because Italian food is more than pizza and carbonara, it’s more than a few popular dishes you can find in every Italian restaurant popular with tourists. Our food is a celebration of creativity, it is cultural exchange, it is regional diversity. It is a perfect reflection of the country’s long and rich history. 

 

Ricorderemo il  2023 come l’anno in cui la cucina italiana ha finalmente chiesto di entrare a far parte del Patrimonio Culturale Immateriale dell’UNESCO, nonché come l’anno di quell’articolo del Financial Times. Infatti, nella stessa settimana in cui abbiamo annunciato la candidatura per far riconoscere la nostra amata cucina dall’UNESCO, lo storico del cibo Alberto Grandi ha suscitato polemiche sulle pagine del popolare giornale britannico, sostenendo che alcuni dei piatti più iconici d’Italia non sono autentici.

L’articolo, scritto da Marianna Giusti e intitolato “Tutto ciò che pensavo di sapere sul cibo italiano è sbagliato”, sfida alcune credenze comuni sulla cucina italiana. Grandi dice che molti “classici” italiani sono, in realtà, invenzioni moderne, usando pizza, carbonara e panettone come esempi, sostenendo che la maggior parte degli italiani non ne aveva mai sentito parlare fino agli anni ’50. Sostiene inoltre che il parmigiano del Wisconsin è un perfetto sostituto moderno del Parmigiano, cosa che deve aver sicuramente fatto molto piacere a tutti i sostenitori dell’industria “Italian Sounding”. Si spendono parole anche sul punto di vista di Luca Cesare sulla carbonara, presentato nel suo libro “Breve storia della pasta: la carbonara è un piatto americano nato in Italia”. Le reazioni negative sono arrivate rapidamente, con l’organizzazione agricola italiana Coldiretti che ha definito l’articolo “un attacco surreale” con “preoccupanti implicazioni economiche e occupazionali”.

Eppure, la proposta italiana dell’UNESCO evidenzia le strette connessioni tra cultura, cibo e stile di vita in un “mosaico di tradizioni” tramandato attraverso le generazioni, e credo che, almeno nell’articolo del Financial Times di cui stiamo discutendo, Grandi non lo riconosca. L’articolo scavalca l’essenza della cultura gastronomica italiana, mancando di due elementi critici: il contesto e il “quadro generale”.

Lo sguardo di Grandi sembra ristretto perché trascura la vasta gamma di piatti e ricette che costituiscono il suo patrimonio culturale: alla fine, la storia del cibo italiano non si limita a un mucchio di noti stereotipi. La nostra cucina è un arazzo di creatività, scambi culturali e ingredienti locali che mettono in mostra la diversità culinaria del Paese. Ad esempio, la cucina siciliana fonde nei suoi piatti sapori mediorientali e nordafricani, mentre le regioni settentrionali celebrano piatti a base di riso e formaggio che riflettono il loro patrimonio agricolo. Limitare la poliedricità e i legami con la storia del nostro cibo, riducendolo a una mera raccolta di piatti popolari, è fargli un torto.

L’articolo suggerisce anche, dicevamo, che molti cosiddetti “classici italiani” erano sconosciuti alle masse fino a poco tempo fa. Ebbene, questo è vero, ma presentare l’idea senza contestualizzare può essere fuorviante: non dobbiamo dimenticare il fatto che, fino agli anni ’50, l’Italia – e il mondo – era un luogo molto più insulare. Fu solo dopo la seconda guerra mondiale che la tv divenne un oggetto domestico e i supermercati divennero onnipresenti, il che significò che le persone avevano accesso a una più ampia varietà di prodotti. Il boom economico degli anni ’50 e ’60 ha cambiato radicalmente l’economia del Paese, che da realtà agricola e regionale è passata a diventare una realtà più industriale e commerciale. E mentre questo spostamento ha portato alla disponibilità complessiva di molti ingredienti e piatti prima sconosciuti al grande pubblico, non significa che la cucina italiana non esistesse prima di allora, o che il suo significato culturale debba essere trascurato.

In altre parole, il punto di vista di Grandi sembra basarsi su una visione incompleta della cucina italiana, perché si concentra su una ristretta selezione di piatti e ingredienti e dimentica la diversità regionale, lo scambio culturale e la storia che rendono la cucina italiana così speciale. E mentre le argomentazioni di Grandi sono una testimonianza dei cambiamenti socioeconomici che hanno avuto luogo in Italia durante il 20° secolo, a mio parere non riescono a catturare l’essenza della cultura alimentare del Paese.

Si potrebbe obiettare che, sottolineando la diversità della cucina italiana, sto solo dimostrando il punto di vista di Grandi. Del resto, se consideriamo il cibo italiano un insieme di piatti regionali, allora la nostra cucina non è veramente unitaria, a parte quella manciata di cose — che Grandi ha individuato con chiarezza — conosciute e consumate ovunque, da nord a sud. E se le sue considerazioni la dicono lunga sullo sviluppo socioeconomico del Paese – e cioè che il boom economico ci ha fatto nazione più degli ideali risorgimentali – sembrano trascurare la natura variegata della cucina italiana, il suo legame con il territorio e la suaù storia e il suo valore comunitario. Dimenticano che il cibo, in Italia, è ovunque motivo di orgoglio e gioiosa unità, forse l’unica cosa che, in sostanza, unisce davvero persone di regioni e generazioni diverse.

E così, pur rispettando la competenza di Grandi sulla cucina italiana, tendo a non essere d’accordo con la sua idea di essa, o almeno, con l’idea che ha espresso sulle pagine del Financial Times. Poiché il cibo italiano è più che pizza e carbonara, è più di alcuni piatti popolari che puoi trovare in ogni ristorante italiano popolare tra i turisti. Il nostro cibo è una celebrazione della creatività, è scambio culturale, è diversità regionale. È un riflesso perfetto della lunga e ricca storia del Paese.


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