Galoppate impetuose. Carrozze con eleganti gentleman e nobildonne. Cowboy. Evocazioni storiche e folclore. Nitriti in tutte le direzioni. Ondeggi di criniera. Perfetta fusione di agilità, fierezza e potenza. Un’inchiodata sulla terra e lo sguardo rivolto diritto al cielo. Cascate pezzate, bianco e marrone.
Lui è il cavallo, connubio perfetto d’istinto, bellezza e libertà. E per lui a Verona c’è una fiera che da più di un secolo è il punto di riferimento nel panorama equestre mondiale.
Fieracavalli, un evento capace di attirare ogni anno decine di migliaia di visitatori da ogni dove (160.000 quest’anno), giornalisti, espositori italiani e stranieri. La città scaligera è stata invasa da una “mandria” pacifica di 2700 animali di 60 razze da tutto il mondo. Novità di questa 116^ edizione, oltre alla presenza per la prima volta di aziende provenienti da India, Svezia, Oman e Cina, il padiglione “La valigia in sella” dedicato all’equiturismo.
Dopo un piacevole viaggio in treno per raggiungere la città di Romeo e Giulietta, salutato nel mio tragitto su rotaie da più di uno stormo di volatili in fase migratoria, l’atmosfera si è spostata (e posata) tra fieno, cavalcate ed esibizioni. Ancor prima di entrare negli immensi “sentieri” di Veronafiere, odori agresti si fanno largo tra l’olfatto e qualche nuovo senso appena sbocciato.
Zaffate di calore miste all’aroma di sterco di cavallo si contendono pori e memoria. Varcati i cancelli, la mia personale transumanza veronese comincia dalla ferratura del cavallo. Possenti maniscalchi lavorano senza sosta. Dalla brace incandescente all’incudine, maneggiano il ferro fino al decisivo colpo sullo zoccolo. Un gesto rapido e la zampa del cavallo viene subito liberata con il quadrupede di nuovo libero di sgambettare.
Stand di tutti i tipi. Selle, cappelli, peluche, stivali. Esibizioni con i nativi americani e rodeo coi bovini presi al lazzo da abili cavalieri. Durante le competizioni la musica intona.
C’è spazio anche per il saloon, i piatti tipici e gli immancabili balli country. Mi perdo nello sguardo di un esemplare confinato nel suo box. Mi fissa pure lui. C’è un po’ di malinconia nei suoi occhi. Sono certo vorrebbe correre libero e non “subire” i tanti flash passeggeri. Resto lì. A dialogare. There is something about the exterior of a horse which befits the interior of a man – “C’è qualcosa nell’esteriorità di un cavallo che si attanaglia all’interiorità di un uomo”, disse il Primo Ministro del Regno Unito, Winston Churchill (1874-1965), e a giudicare da quanto appena provato, credo proprio sia così.
Difficile pensare a un simile evento senza l’euforica presenza dei più piccoli, accorsi come sempre in gran numero. I bambini scalpitano, quasi più di stalloni e destrieri. Alcuni corrono in mezzo alla folla. Altri ancora, troppo piccini per liberarsi dall’amorevole stretta dei genitori, sgambettano in braccio, bramosi di vedere, scoprire e toccare. Per loro (e non solo) è il momento più atteso, quando la propria manina si avvicina alla criniera di un soffice ciuco o di un docile pony. Gli carezzano il muso, e i loro teneri visetti si fanno sconfinata enciclopedia di gioia contagiosa.
“I cavalli” pontificava il Maggiore (Farley Granger) nell’immortale spaghetti western “Lo chiamavano Trinità” con Bud Spencer e Terence Hill, “cosa sarebbe stato dell’umanità senza il cavallo?
Il grande Cesare, Alessandro il grande, i grandi di Spagna. Sarebbero stati veramente grandi senza il cavallo?”. Che ci si trovi dinnanzi a un cavallo su di un pascolo alpino, tra le colline toscane, sugli altipiani calabresi o anche più banalmente in un maneggio cittadino, incontrare uno di questi esemplari è un’esperienza che non può lasciare indifferenti. Viene naturale avvicinarsi per confidargli qualcosa, e poi magari riprendere il cammino. Insieme.