Francesca Valente lo ricorda riportando un’intervista svoltasi nel suo studio a Bassano del Grappa (Vicenza) nell’estate del 2011, prima dell’inaugurazione della mostra a Palazzo Grimani, nel contesto della Biennale di Venezia. Fa da sfondo lo scrosciare del fiume Brenta.
Federico Bonaldi è considerato uno dei più grandi ed originali scultori e ceramisti italiani del XX secolo.
È nato il 3 luglio 1933 a Bassano del Grappa (Vicenza). Ha frequentato la Scuola d’Arte a Nove dal 1948 al 1951 e dal 1951 al 1954 a Venezia, dove ha conseguito il diploma di Maestro d’Arte seguito dal Magistero d’Arte Ceramica, sempre a Venezia dal 1954 al 1956.
Il suo laboratorio a Bassano del Grappa è stato fin dal 1957 un punto di riferimento. Nel 1964 ha presentato alcuni suoi lavori alla Biennale d’Arte di Venezia. All’età di 78 anni ha esposto per la seconda volta al Padiglione Italia e, sempre nel contesto della Biennale 2011, è stato oggetto di una importante retrospettiva veneziana a Palazzo Grimani.
Le sue opere in argilla refrattaria, porcellana e gres, eminentemente materiche, grazie ad un uso spregiudicato delle tecniche raggiungono effetti di sorprendente policromia.
È venuto a mancare il 13 agosto del 2012 lasciando un vuoto incolmabile nel mondo della cultura e dell’arte contemporanea.
Qual è il ruolo della ceramica oggi nelle arti visive in Italia?
Secondo me, la ceramica non ha ancora un ruolo in Italia, perché viene relegata fra le arti decorative o minori. In Giappone viceversa, la ceramica viene tenuta in grande considerazione al punto che è considerata superiore persino alla pittura. In Italia non c’è mercato. Quando si dice che c’è una ripresa non è vero.
Un grande maestro nel campo della ceramica è stato Gio Ponti, che ha fatto delle sculture straordinarie e ha dato impulso a tutte le arti. Veniva da me qui, in studio, dopo esserci conosciuti ad una Fiera a Vicenza e mi apprezzava molto. Mi ha chiesto dei disegni che ha poi pubblicato su Domus. “Lei ha gusto e cultura” mi diceva. Era una persona dedita alla ricerca. Ai miei tempi, di questi personaggi poliedrici e innovativi, ce n’erano più di uno. Ora non più.
Con mia moglie Gina siamo riusciti a fare molti viaggi. Ci siamo spinti fino in Romania, in Russia. Io ho sempre apprezzato l’arte popolare e ho cercato di scoprire piccole culture in via di estinzione. Purtroppo oggi tutto viene omologato, appiattito. Le multinazionali hanno bisogno dello stesso prodotto. Il grande patrimonio delle piccole culture va scomparendo.
Come si inserisce la sua opera nella tradizione della ceramica in Italia?
Prima avevo rapporti con la piccola industria e l’artigianato, inclusi alcuni negozi a New York. Cercavo di rinnovarmi ma restando sempre legato alla tradizione. Se si vede un mio oggetto, si capisce subito che è stato fatto in Italia e a Bassano del Grappa. Quando partecipo ora alla giuria in mostre internazionali d’arte, mi sembra che tutti gli oggetti siano pressoché uguali. Ma sono certo che ci siano ancora molti artisti bravi, ma sono nascosti.
Da parte mia, ho cercato di risalire ai miti più disparati e metterli assieme.
Le mie cose interessano molto ai bambini. Sentono un trasporto, un vero interesse per gli oggetti che creo. Sono rimasto sbalordito dal ritrovamento della mummia del Similaun, il reperto archeologico che è stato ritrovato nei ghiacci delle nostre Alpi, le Alpi Venoste. Sulle ginocchia riporta dei segni che corrispondono esattamente ai disegni di tipo curativo che faceva mia nonna con la tintura di iodio sulle mie ginocchia per lenire piccoli dolori artritici oppure per alleviare il dolore dopo aver preso una botta o riportato una piccola ferita o scalfittura. Sono in effetti disegni magici e sono rimasto incantato che dopo 2000 anni si ripetano ancora.
Dicono che il Veneto sia molto religioso, molto cattolico ma spesso si tende a ignorare o a dimenticare il retaggio di culture antichissime preesistenti, che nei secoli ha incorporato e fatte sue.
Le rose, ad esempio, prima di essere un simbolo cristiano si identificano con le rose di Venere. La cultura contadina aveva una profonda conoscenza del cielo. Le piante dovevano essere piantate nel modo giusto studiando il rapporto con gli astri e le stagioni. Oggi, con il petrolio, si riesce a far nascere le zucchine a gennaio. Tutto dipende esclusivamente dal denaro e dalla chimica.
Lei ha esposto in alcuni musei in Giappone. Qual è il suo rapporto con il Sol Levante?
In Giappone è stato meraviglioso. All’inizio lavoravo con gli americani ma poi c’è stato un ribaltone: i giapponesi sono venuti da me e si sono innamorati delle mie opere.
Sono stato chiamato più volte e ho lavorato per mesi in Giappone. La prima volta mi sono fermato 40 giorni. Ho fatto dei libri e realizzato mostre. Ho anche creato il cosiddetto Giardino della morte a Osaka con sculture di pietra. Durante il G7 ho tenuto delle conferenze in alcune importanti università.
Chi ricorda dei suoi maestri?
Da ragazzo ho avuto un insegnante d’eccezione. Era il direttore della Scuola d’Arte di Nove di Bassano. Si chiamava Andrea Parini. Era un periodo intellettualmente buio per me e lui per me rappresentava il sole.
Ero orfano di padre e per me l’Istituto Statale d’Arte ha costituito un vero punto di riferimento. Tra gli insegnanti eccezionali che ho avuto ricordo Venier Marin. Sono scappato da un’industria e mi sono iscritto alle scuole serali di artigianato.
Mi racconti la genesi dei suoi celebri fischietti, che sono ora esibiti nel Museo di Roana, sull’Altipiano di Asiago.
Un tempo andavo in giro per le scuole a fare fischietti di argilla e girandole di carta. Da bambino sono vissuto con i giocolieri di piazza. Vendevano grasso di marmotta e mi facevano mettere i serpenti in bocca. Alcuni di loro avevano un topolino vivo in tasca ed erano così poveri che erano disposti a mangiarlo vivo per un bicchiere di grappa. Io giocavo assieme a loro e così ho vissuto un’infanzia di fiaba.
Ho visto di tutto, persino 20 persone impiccate per la strada dai tedeschi nel 1944 e così la morte non mi spaventa.
Mia moglie ed io siamo andati dappertutto, io ho una memoria fotografica e continuo ad accumulare in me immagini, riprodurre segni e costruire storie che mi porto dentro. Ho sempre detestato quelli che dicevano che l’arte popolare è di seconda categoria. Tutti i grandi scultori, incluso Picasso, si sono ispirati all’arte popolare perché è pura, è magica.
Quello che conta è il fatto magico dell’oggetto, l’estetica viene dopo. Picasso prende una sella di bicicletta e la rimaneggia e la ricostruisce rifacendosi all’arte africana di cui era circondato nel suo studio. Anche Les démoiselles d’Avignon proviene dall’arte africana.
Nella musica si verifica la stessa cosa. Le culture cosiddette “basse” costituiscono una ricchezza, sono spontaneistiche. Pensiamo al jazz e al suo rapporto con la musica africana.
Io lavoro molto ma produco poco. È stato il mio insegnante di Nove, Andrea Parini, ad insegnarmi a fare i fischietti. Vittorio Sgarbi lo conosce bene.
Io ho un forno da 30 kg e il mio è un mondo di frammenti in ceramica che creo, scompongo e ricompongo. Non ho mai voluto fare cataloghi per le mie mostre.
Il mio motto è Bene vixit qui bene latuit, ovvero Vive bene chi bene si nasconde (Ovidio-Cartesio).
Amo restare nella mia tana, nel mio studio secluso lungo il fiume Brenta e creare tavolette di ceramica intessute di misteriose scritture ricche di archetipi e antichi simboli, frammenti di vita per coltivare l’aspetto magico dell’esistenza e conservare lo stupore di un “puteo”, di quel fanciullo che è celato dentro ciascuno di noi.