Per ogni malattia c’erano almeno cinque erbe medicinali alla portata di tutti per curarla (Ph RitaE da Pixabay)
Gli  abruzzesi,  per  secoli,  per  curarsi  hanno fatto ricorso  alla  cosiddetta “farmacia del buon  Dio” cioè alle erbe e ad altri  prodotti naturali. Si trattava di  ricette molto diffuse tra il popolo e alla portata di tutti a base di sambuco, rosmarino, salvia, menta, camomilla, vino, prodotti naturali che venivano usati come  veri e propri  medicamenti.
Per ogni malattia c’erano almeno cinque erbe a curarla. L’acqua del fiore di sambuco era  considerata un rinfrescante, l’infuso di rosmarino misto a vino  fermentato  era  usato  per  purificare  le  gengive  e  profumare  l’alito,  il  succo delle rose veniva  ritenuto  un ottimo aperitivo, mentre quello delle viole un  efficace  purgativo. I distillati    di  fiori  di  sambuco, di finocchio  e  di  salvia  servivano per  lenire il male agli  occhi, mentre il mal d’orecchi si  curava con  succo di  zucca unito ad olio di miglio, mentre l’impasto di farina di fave serviva a curare le piaghe.
Per lenire gli arrossamenti dei lattanti si spalmava olio d’oliva talvolta mescolato con cipria. Il male alle ginocchia si curava applicando stoppa imbevuta di vino nero. Il singhiozzo si debellava sorseggiando lentamente uno sciroppo di papaveri misto ad orzo, il succo di ciclamino serviva invece ad arrestare un’emorragia nasale, infine le piume di pioppo, raccolte a suo tempo, sostituivano il cotone idrofilo.
Con lo stessto criterio si producevano i saponi e i detersivi di un tempo.
Le casalinghe che portavano a lavare lenzuola, federe e tovaglie al fiume le sbattevano contro i sassi e poi le stendevano al sole sui prati finchè non acquistavano il candore ed il profumo caratteristico del bucato di un tempo. Il sapone per lavare la biancheria si ricavava da lunghi e pazienti procedimenti. Si mettevano in un sacco appeso ad un chiodo della cucina o del fondaco, cenere, legna e calce miste ad acqua che si aggiungeva di tanto in tanto.
Il liquido che da esso gocciolava, che aveva forti proprietà detergenti, veniva raccolto in un recipiente e poi mescolato ad olio d’oliva di scarto e a grassi di maiale: veniva fatto bollire fino ad ottenerne un miscuglio pastoso e sodo. Una volta raffreddato veniva tagliato in pezzi di sapone. La liscivia veniva ricavata dalla decantazione della cenere di legna nell’acqua bollente e poi usata  in dosi misurate per mettere in ammollo la biancheria sporca.
Un altro lavoro che richiedeva fatica e pazienza alle massaie di un tempo era la lucidatura dei recipienti di rame: conche, pentole, tegami, bracieri e scaldini. Specialmente in prossimità delle feste le donne di casa toglievano a questi recipienti la patina scura strofinandoli con sabbia bagnata e poi con aceto e sale risciacquando alla fine con acqua e sapone. La sabbia, il sale e l’aceto erano usati quotidianamente dopo ogni pasto nel lavaggio di pentole e posate per farle tornare nitide e terse.

Receive more stories like this in your inbox