Guido Piovene, scrittore e giornalista vicentino, fu in America tra l’autunno del 1951 e quello dell’anno seguente. 
 
Viaggiava a briglie sciolte per gli States, e dal suo viaggiare trasse oltre un centinaio di articoli di varia natura, che venivano via via pubblicati sul Corriere della Sera, il quotidiano per il quale faceva il corrispondente dall’estero. Poi, all’inizio del 1953, tutti gli articoli vennero messi insieme, accorpati in un’opera unica alla quale Piovene diede il nome di “De America”: un avvincente diario di viaggio che riassumeva tappa per tappa l’esperienza del giornalista nel nuovo continente. 
 
Da New York al profondo sud, passando per le vie del west, Chicago, i grandi parchi e la California, nei suoi pezzi Guido Piovene dà un ritratto mutevole degli Usa, che si rinnova ed arricchisce giorno dopo giorno, chilometro dopo chilometro. 
 
Come guardando attraverso un cannocchiale, con la messa a fuoco che pian piano si perfeziona e ci garantisce un panorama sempre più nitido, sempre più preciso, così lo scrittore ci racconta il suo viaggio, con le “resistenze” e i sospetti tipici degli europei che cadono poco a poco. L’America si fa sempre più reale e vicina, coi suoi miti, le sue promesse, le suggestioni dell’immaginario collettivo che acquistano finalmente autenticità.  
 
Se è vero che nessuno come uno scrittore straniero riesce a descrivere e a raccontare un Paese mentre lo attraversa in viaggio (ecco perché, ad esempio, il “Viaggio in Italia” di Goethe rimane una delle descrizioni più belle e profonde del nostro Paese), è di rimando vero che il De America di Piovene riesce a cogliere, con una lucidità e una sensibilità di analisi rarissime, alcuni aspetti degli Stati Uniti forse ancora nascosti.
 
In “Angolo California”, la sezione del libro che raccoglie i pezzi sul Golden State, Piovene regala, dapprincipio, una serie di interessantissime osservazioni su Los Angeles.
  Nel suo ‘De America’ Piovene descrisse l’America degli anni ‘50

  Nel suo ‘De America’ Piovene descrisse l’America degli anni ‘50

La chiama “città nebulosa” e “città centrifuga”, evocandone le caratteristiche che più la differenziano dalle tipiche città europee. La dispersività esasperata di un tessuto urbano che si estende per chilometri e chilo-metri quadrati; la tendenza – opposta a quella italiana – di allontanarsi sempre di più dal centro cittadino, attraverso un moto, appunto, centrifugo, votato all’espansione sul territorio. 
 
Scrive Piovene:
“Un centinaio di chilometri è la distanza giornaliera che ciascuno percorre se vuol far vita mediocremente socievole; per un cocktail, ad esempio, e un pranzo in due quartieri diversi. […] Qualche cosa di dispersivo, di astratto, di distaccato, entra nei sentimenti; vorrei aggiungere che non è questo un valore soltanto negativo, come si ritiene in Europa. L’umore predominante è un misto di solidarietà umana generica ed universale”.
 
La struttura urbanistica dunque, secondo Piovene, plasma la forma mentis americana. Grandi spazi comportano grandi aperture verso il prossimo. 
Cosa c’è di più lontano dal campanilismo italiano dei borghi e dei rioni, dove sentimenti e passioni sociali si giocano spesso nello spazio di pochi metri quadrati? 
 
Lo scrittore spende due parole anche sul mondo del cinema e dell’arte, vivacissimo a L.A in quegli anni (vivevano allora nella metropoli californiana artisti del calibro di Strawinski, Huxkey, Thomas Mann, etc.) come oggi.
 
Piovene resta colpito da come tutti gli artisti, musicisti, scrittori e soprattutto attori, vivessero sparsi nell’immenso circondario di Los Angeles, tutti lontanissimi gli uni dagli altri, chiusi nelle loro lussuose ville con piscina. Anche qui, la diversità con l’universo europeo dei “caffè” è notevole; il paragone con la Parigi bohemien di quegli stessi anni, quella raccontata da Miller nel Tropico del Cancro per intenderci, dove tra artisti ci si incontrava tutti i pomeriggi nei bistrò del quartiere latino, è disarmante.
 
“Gli artisti di Los Angeles vivono disseminati, ognuno nella sua villetta, e pochi fili conducono da uno all’altro”. 
Riflessioni interessanti Piovene le dedica anche al mondo del lavoro. 
 
La California è lo Stato in cui gli operai percepiscono i salari più alti d’America. Los Angeles, che con tutto il circondario comprende una mole di persone e lavoratori mastodontica, è la vera forza motrice, la locomotiva in grado di trainare la California a velocità irraggiungibili per tutti gli altri Stati.
 
“Il lavoro è facile in California, il maitre del mio albergo viene a congedarsi da me; parte per le vacanze. – E poi torna qui? – Gli chiedo. – No – risponde – ho lasciato il posto perché volevo prendere una vacanza lunga; troverò un altro posto quando avrò finito i soldi -. Ho conosciuto un italiano, sbarcato clandestinamente e nascostosi in un ristorante a fare lo sguattero; non usciva mai, Los Angeles gli è rimasta ignota come la luna, e tornerà in Italia da quel lunghissimo giro come se non avesse lasciato la soglia della propria casa, con una sola immagine in più: una cucina. Ha però risparmiato cinquemila dollari, quanto gli basta per aprire un piccolo negozio a Genova”.
 
Racconta così lo scrittore, e riflette ancora su quanto l’incredibile vivacità, il rigoglio del job market californiano abbia plasmato in una certa maniera le menti dei lavoratori. 
 
Le corporazioni e i sindacati qui non attecchiscono: nessuno vuole riconoscersi in una classe lavorativa perché aspira a scalare quella che c’è sopra. Legarsi ad una condizione sociale significherebbe imbrigliarsi, tarparsi le ali e impedirsi sul nascere quell’ascesa che ogni buon californiano ha alla sua portata; tanto più che spesso un operaio si trova solidale con le ragioni dei datori di lavori, ai quali sogna presto o tardi di sedersi a fianco, più che con quelle dei colleghi.
 
Il De America lascia della California un’immagine vibrante, memorabile e precisa, raccontata con piglio giornalistico da uno dei migliori giornalisti della storia italiana.
 
 Piovene chiude il suo resoconto di viaggio con un elogio dell’internazionalismo americano, visto soprattutto come presupposto per un incontro culturale con la vecchia Europa:
“Gli elementi essenziali della civiltà americana sono fatti per fiorire in una civiltà più ampia; devono uscire dai confini per integrarsi e realizzarsi. Prima che un espediente politico il mondo americano-europeo è perciò un ideale di civiltà e di cultura”. 
 

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