Molti anni fa facevo spesso visita alla verdeggiante Sangiano, vicino a Laveno, sul lago Maggiore, in provincia di Varese, perché i miei amati nonni abitavano lì vicino, a Cittiglio. Il piccolo paese ha tuttora un suo fascino molto particolare: non è propriamente montagna, non è pianura, ma vi si respira il contatto con la natura, si sentono in lontananza negli spazi immensi i latrati dei cani, si odora verso sera il caratteristico profumo dell’erba bruciata. In autunno, ma soprattutto in inverno, scende quella sottile nebbiolina, un po’ umida, che crea una sensazione piacevole di ricordi e suscita antiche nostalgie. Qui è nato, nel lontano 1926, il grandissimo Dario Fo.
Non era una persona comune. La sua “normalità”, propria degli abitanti del luogo, aveva qualcosa di speciale: era caratterizzato da quella semplicità tipica delle persone eccezionalmente intelligenti che non si sentono mai arrivate alla meta, che hanno sempre qualcosa da imparare anche dai più umili, soprattutto da chi non ha studiato, perché proprio questi sono in grado di mantenere intatta dentro di sé quella spontaneità infantile, quella meraviglia di fronte a tutto che conduce alla saggezza. La stessa filosofia, che è massima espressione di saggezza, nasce proprio dallo stupore e abbraccia poi tutte le discipline e le arti. Dario Fo, nostro Nobel alla Letteratura, era attore, scrittore, poeta, pittore. Un artista a 360 gradi, un eclettico, un poliedrico, avido di vita, mai sazio di imparare, di esprimersi, di giocare con le prove cui l’esistenza lo sottoponeva. Non ha mai conosciuto il “taedium vitae”, la “noia di vivere, la depressione dell’uomo moderno di fronte alla routine: ogni giorno era in grado di partire con rinnovato entusiasmo per una nuova avventura. Dario Fo era così: semplice, umile, normalissimo, ma profondamente saggio, creativo, versatile e geniale.
Attraverso la sua arte, appresa più dalla vita che dai libri, era in grado al contempo di suscitare il riso e la commozione e questa, lo sappiamo bene tutti, non è assolutamente un’operazione semplice. Essere “commedia” e “tragedia” insieme è dote propria di un’indole estremamente sensibile che, dietro la maschera del “giullare”, come lui ironicamente si autodefiniva, piange.
La sapienza degli antichi, Greci e Romani, ci ha sempre insegnato a distinguere nettamente l’apparenza dalla realtà e il suo personaggio ne è stato un esempio vivente: è semplice per chiunque lasciarsi andare a pianti, a manifestazioni palesi di dolore, di disperazione, ma forse, chi trattiene dentro di sé questi moti dell’animo e cerca di sdrammatizzarli attraverso la sua vena ironica, senza versare una sola lacrima, è molto più sensibile di altri e piange dentro.
Ne è una prova il discorso che il grande attore ha fatto a Milano, di fronte ad una folla immensa che lo ascoltava silenziosa, in ricordo dell’amatissima consorte, noto come il discorso del “Ciaooooo…”. In quell’occasione Fo non ha versato una lacrima, ha sempre sorriso, con quella dolcezza dello sguardo che valeva molto più dell’avvenenza fisica, ma dentro era distrutto dal dolore: “Con Franca Rame abbiamo vissuto tre volte più degli altri”, disse.
Questo era Dario Fo, un giullare dei nostri tempi, che ha insegnato a tutti noi ad essere saggi divertendoci, a leggere la realtà togliendoci dagli occhi quel velame di pregiudizi e preconcetti che ogni giorno ci annebbiano e ci avvelenano l’esistenza. Dario era vero. Concluderò con una sua frase divenuta famosa: “Se mi dovesse capitare qualcosa, dite che ho fatto di tutto per campare”.