Le parole son come le ciliegie: una tira l’altra. E nel discorso entrano a proposito le ciliegie perchè ho in mente di parlarvi di “marmellata”. Parola che mi rimanda a “confettura”, questa a “confetti”, e da quest’ultima  al verbo latino “conficio”. 
 
La maggior parte dei produttori di marmellata (la conserva alimentare a base di frutta fresca con l’aggiunta di sostanze zuccherine) indica sui vasetti della dolce e proverbiale leccornìa la definizione di “confettura”. Quasi che marmellata fosse un termine regionale, da lessico familiare. Convinti che confettura sia più adatto alla denominazione della categoria merceologica per i risvolti giuridici, normativi e commerciali della comunicazione. 
 
Eppure c’è stato un tempo in cui passava l’idea che la marmellata fosse un prodotto diverso dalla confettura. Diverso per qualità, per prezzo, e per il processo di preparazione del prodotto finale. Ma quali che fossero i referenti reali delle due parole, a noi interessano i significati, le accezioni, la formazione, la storia e uso.
 
Marmellata è di origine portoghese (marmelada) e significa “confettura di marmelo (mela cotogna)”. Perciò “cotognata” è la traduzione puntuale nella lingua italiana, precisa, della parola “marmelada”. 
È strano, ma anche da noi, in Italia, l’unica marmellata che prenda il nome dalla frutta utilizzata è la “cotognata”, di cui oggi ci è rimasto solo un nostalgico ricordo. Poi, il termine d’importazione portoghese è stato applicato per estensione a tutte le altre “marmellate”, o meglio, confetture, per chiamarle col termine generico.
 
Sempre nella lingua portoghese la fabbrica di marmellata si chiama “confeitaria”.
Non è escluso tuttavia che la seconda parte delle due parole portoghesi: “marmelata” (-melata) e “marmelo” (-melo), abbiano a che fare col miele (parola di provenienza greca, e poi latina, diffusa nell’area mediterranea). Ciò spiegherebbe, da una parte, il modo più antico, caduto in disuso con la diffusione dello zucchero, di preparare le conserve di frutta; dall’altra, l’eventuale differenza, dove essa fosse rimasta, tra le due qualità di prodotti.
 
La nostra “confettura”, come parola, viene da confetto, da cui anche “confettificio” e “confetteria”. Che rimanda al verbo latino conficio (cum + facio = faccio mettendo insieme). Perciò non ha nessun rapporto semantico con “zucchero”. Significa semplicemente “fatta con”, “preparata con”.
 
Come già accennato, insieme a tante altre parole, confettura e confezione hanno origine comune nel verbo latino “fàcere” (=fare). Cioè: “preparare”. Non si chiamano “faccende” tutti i lavori di casa svolti dalla padrona?
 
 E qui è necessario richiamare alcune nozioni di latino che già ho avuto modo di presentare in analoghe situazioni. 
 
Il verbo fàcere al presente è “facio” (=io faccio), al perfetto è “feci” (=ho fatto), e al participio perfetto è “factum” (=fatto). A seconda della preposizione che vi si aggiunge, il verbo specializza il suo significato a partire dal tratto semantico del  “fare”.
 
Molte parole della lingua italiana trovano infatti origine nel verbo fare, a cui difficilmente pensiamo, ad esempio: affetto, confetto, difetto, effetto, infetto, perfetto, deficiente, efficiente, sufficiente, inficiare, superficie, maleficio, beneficio, opificio, panificio, ecc. ecc.
Così anche confezione e confettura.
 
Ognuna di queste parole meriterebbe un’analisi semantica particolareggiata e possiamo provarvici.
Confetto, confettificio e confettura fanno parte della famiglia. Quindi, confetto essenzialmente significa “fatto”, “preparato con diversi ingredienti”, anche se poi va a significare il prodotto finito, in questo caso i confetti. La stessa cosa vale per confettificio e confettura.
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