Neppure uno sguardo, una parola. Atmosfera ghiacciata all’interno di Palazzo Chigi nel momento del passaggio delle consegne tra il Premier uscente, Enrico Letta, e il nuovo inquilino, Matteo Renzi. Ruggini, incomprensioni, forse anche una discreta antipatia reciproca.
 
Letta non ha perdonato (e come avrebbe potuto, d’altronde?) l’affondo vincente del suo compagno di partito, eletto segretario del Partito Democratico, l’8 dicembre scorso e catapultato, dopo due mesi soltanto, a Palazzo Chigi, Premier più giovane della democrazia italiana.
 
Quanto è durato lo scambio di consegne, dopo il giuramento dei nuovi, sedici Ministri al Quirinale, davanti a Napolitano, testimone dell’ennesima avventura di un Esecutivo? Neppure un giro di lancette.
 
Letta e Renzi non si sono neppure guardati negli occhi, fissando per tutto il tempo (risibile) un punto della sala che li ospitava pur di non incontrare lo sguardo del rivale. Letta disarcionato da un compagno di partito, in Italia abbiamo registrato anche questo anche se tradimenti così smaccati – all’interno di uno stesso movimento – si erano già verificati in passato, eccome.
 
Un anno fa Renzi era il Sindaco di Firenze, aveva perduto le Primarie per diventare segretario del Partito Democratico. Sembrava aver deposto velleità di crescita  a trentanove anni, in fondo, poteva pure permetterselo. Ha invece lavorato ai fianchi, come un pugile esperto, aspettando il momento propizio per affondare i colpi, orientando il ko finale. Neppure una parola in quei lunghissimi secondi di scambio delle consegne.
 
Un gelo terrificante che ha messo in imbarazzo persino i funzionari più vecchi di Palazzo Chigi, quelli con i capelli bianchi, che hanno visto, in carriera, transitare decine di Presidenti del Consiglio. Letta si è quasi commosso nel cortile di Palazzo Chigi, passando prima in rassegna reparti militari e poi salutando i dipendenti della Presidenza del Consiglio che lo applaudivano dalle finestre. Ha lasciato un ottimo ricordo: mai una parola fuori luogo, un rimbrotto con chi ha lavorato con lui negli ultimi trecento giorni, tanto è durato il suo Esecutivo.
 
Prima di arrendersi al forcing di Renzi aveva provato a rialzare la testa, presentando un documento – ‘Sviluppo Italia’ – per provare a ridare linfa vitale all’azione del suo Governo. Non è bastato perché Napolitano aveva già deciso di cavalcare l’effetto-Renzi, la ventata di novità richiesta dal Partito Democratico, lo stesso in cui milita Letta.
 
Un tradimento, l’ha considerato il Premier uscente, prima di rintanarsi nella casa di Testaccio, davanti a Porta Portese, sopra il greto del Tevere. Una storia che ha sancito anche la fine di vecchie amicizie: come quella con Franceschini, Ministro del Governo Letta, convertitosi strada facendo al ‘renzismo’ , premiato col dicastero della Cultura. Mentre Renzi riceveva le prime telefonate dal mondo che conta (dalla Comunità Europea, da Hollande, da Obama), Letta partiva per un breve soggiorno fuori Roma.
 
Ha raggiunto Pisa, la casa dei genitori per cercare, se possibile, di ricaricare le pile, provando a superare una delusione atroce. In Toscana, qualche ora più tardi, tornava, nella casa di Pontassieve, anche Matteo Renzi. Una domenica in famiglia prima di trasferirsi a Palazzo Chigi. 
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