“Ma di che cosa non sono capaci le donne calabresi? Se fossi al governo le nominerei, in massa, cavalieresse del lavoro”. A sostenerlo con passione e convinzione nel lontano 1907 era una delle pioniere del femminismo italiano, la scrittrice Clelia Pellicano, che aveva sposato un marchese calabrese di Gioiosa Jonica. Nel libro-inchiesta “Donne e industrie nella provincia di Reggio Calabria”, 110 anni fa ne esaltava il ruolo fondamentale per “una nuova industria che potrebbe ben sorgere e prosperare, là dove, in condizioni peggiori, ha potuto fiorire l’antica”. Intraprendenti, forti, laboriose, coraggiose. Come Caterina Papandrea che il 4 aprile ha spento 104 candeline. 
 
Una vita non facile la sua. Duro lavoro nei campi. Cinque figli: Rosa, Maria Grazia, Rocco, Antonio e Salvatore Martino. Purtroppo Rocco e Salvatore sono morti in due tragiche circostanze. “Lavoro e guai. Se raccontassi la mia vita…”. E fa un gesto con la mano accompagnato dallo sguardo come ad indicare il lontano passato, che nella sua mente è sempre lucidamente presente. Le chiediamo di raccontare, di sfogliare l’album della memoria. “E che debbo dire?” 
Con l’interrogativo riaffiora nell’ultracentenaria la riservatezza alla quale le ragazze di un tempo venivano educate dalle mamme. “I fatti vostri teneteli in famiglia. Non raccontateli in giro. A nessuno”. 
 
Nonna Caterina si passa la mano sulla fronte. Chiude per un attimo gli occhi e poi con voce lenta, intrisa di forte commozione, decide di aprire il libro dei ricordi iniziando con un confidenziale e famigliare “caro nipote mio”. E poi: “Tante storie. Non so proprio da dove iniziare. Quante ne ho viste, quante ne ho passate. Ho cominciato a lavorare in casa da bambina. Appena più grandicella aiutavo i miei genitori nei campi. A 22 anni mi sono sposata. Lavoro in casa e in campagna. Poi la guerra, mio marito militare, lontano per 8 anni, prigioniero in Albania. Sola, con tre bimbi piccoli: Rosa, Maria Grazia e Rocco”. Sofferenze e paure affrontate con coraggio. 
 
“Raccontategli quel giorno che siete salita sulla quercia e non riuscivate a scendere…”. 
Il suggerimento con l’uso del rispettosissimo “voi”, arriva dalla figlia Maria Grazia, che il 26 marzo compie 78 anni e che vive con il marito, il notissimo maestro calzolaio Rocco Totino, 92 anni, nel centro di Gioiosa Jonica. Maria Grazia Martino continua ad occuparsi della campagna, curandola personalmente.  “La terra non si deve abbandonare. Ora ci sono le comodità: la strada, guido la macchina, ho il cellulare sempre con me. Oggi ho piantato venti chili di patate”. 
 
All’invito della figlia gli occhi della nonnina si inumidiscono. “Eravamo negli anni terribili della guerra. Vivevamo nella contrada Perru, lontana dall’abitato di Gioiosa Jonica”. Praticamente nell’isolamento totale. Non c’era l’acqua, non c’era la luce, non c’era la strada. Tanta miseria e 3 bimbi da sfamare”.
E ci fu un giorno in cui si trovò senza più legna. Non poteva accendere il fuoco per cucinare. Si arrampicò su una quercia. “Tagliai e buttai giù tanti piccoli rami”. Quando i figli le dissero “Mamma questi bastano, ora puoi scendere”, guardò giù e fu presa dal panico. Era salita troppo in alto. “Ho avuto paura. Dio mio cosa faccio? Aiutami tu! e mi misi a piangere. Disperata. Non riesco a scendere, non riesco a scendere! urlavo”. Ma nessuno poteva sentire, nessuno la poteva aiutare. I bambini erano troppo piccoli per fare qualcosa. “Anche loro incominciarono a piangere: Mamma scendi, scendi! Immaginate voi che momenti brutti”. Mamma Caterina trovò il coraggio di affrontare la discesa. 
“Abbracciai il tronco. Centimetro dopo centimetro, scivolai lentamente. Ce la feci! Quando misi i piedi per terra scoppiai a ridere. Anche i bambini si misero a ridere”. Lieto fine. “Portammo la legna in casa; accesi il fuoco e cucinai”. I tre bimbi anche quel giorno ebbero un piatto caldo. E fu festa nell’umile casetta di mamma Caterina, un nido d’amore, dove tre bimbetti aspettavano con ansia il ritorno di papà, che in Albania si rigirava tra le mani la foto di famiglia che gli era stata mandata da Gioiosa Jonica. E’ la bella foto degli affetti. La figlia Maria Grazia ce la fa vedere. Un prezioso scatto degli anni Quaranta, custodito gelosamente. 
 
Nonna Caterina ricorda ancora la grande paura provocata dall’aereo che, per un guasto agli strumenti di bordo, nella notte del 21 marzo 1942 si schiantò contro la montagna, in località Prunia, non lontano da dove abitava con i suoi tre bimbi. “E’ passato bassissimo proprio sulla nostra casa”. Morirono tutti gli occupanti del velivolo militare. “Ricordo come fosse oggi. Un grande bagliore. Una cosa tremenda, che non si può dimenticare”, dice la figlia Maria Grazia, che allora aveva 8 anni. Aggiunge: “Tante persone della località Prunia scapparono e vennero a casa nostra. Mia madre accolse tutti con grande affetto”. Un’altra significativa testimonianza della solidarietà del mondo contadino.
 
“I servizi non erano in casa e nel buio della notte andavamo fuori. Era così in quei tempi”, dice ancora Maria Grazia. “Una sera ero con mia sorella Rosa che ha visto qualcosa di strano. “Mamma ci sono due “lumere” (lucette) nel buio! Vieni, vieni a vedere”. Mia madre arrivò immediatamente. Aveva infatti capito che un lupo si stava avvicinando a noi. Ci prese in braccio e ci portò in casa. Chiuse bene la porta, prese il fucile, salì su una sedia, tolse una tegola e si mise a sparare per aria per far andare via il lupo. L’indomani trovammo tutte le galline uccise”.
 
Donna forte, con un grande cuore. Mamma Caterina andava a prendere l’acqua alla sorgente. Sentieri pericolosi. Tanto cammino a piedi. Tanta fatica con la pioggia o sotto il sole cocente. Per prendere fiato, le contadine ed i contadini diretti in montagna si fermavano sempre nello spiazzo attiguo alla casetta della famiglia dell’ultracentenaria. Stanchi e assetati. Ricorda Maria Grazia: “Mia mamma dava da bere a tutti. Dopo anni ho incontrato tante persone che si erano dissetate a casa nostra. Mi hanno detto: “Abbiamo pensato e continuiamo a pensare sempre con gratitudine alla bontà, alla generosità di tua mamma. Si privava dell’acqua che aveva faticosamente portato a casa per darla a noi”. Mi hanno pure detto di sentirsi in colpa. Come se avessero approfittato della bontà di mia mamma”.
 
Donna di fede. E’ felice che uno dei tantissimi nipoti, Rocco Agostino, si è fatto prete. “Ha fatto una cosa buona. E’ venuto a trovarmi con il vescovo di Locri mons. Francesco Oliva e con padre Michele. Mi ha fatto tanto piacere parlare con il vescovo. Una brava persona”. La fede l’ha aiutata a risollevarsi da tante avversità. I grandi dolori per la tragica morte di due figli e i problemi di salute. “Sono stata operata di ulcera, mi sono fratturata la gamba e il femore… Per due volte i medici mi hanno “licenziata”, mi avevano detto che non c’era più nulla da fare. Grazie a Dio sono ancora qui”. Da qualche tempo è costretta a letto per le conseguenze di una caduta. Spera sempre in un nuovo miracolo: “Vorrei poter ritornare a camminare. Ci sono tanti che hanno superato i 100 anni e camminano bene”. Non lo dice con invidia ma con ammirazione. Perché lei è una donna che ha sempre pensato al bene comune, non al proprio tornaconto. Caterina ci ha raccontato una lunga, commovente, affascinante lezione di vita. Un libro di sofferenza, saggezza e voglia di fare senza cedimenti o rassegnazione. Una grande lezione che ci consegna la civiltà contadina.
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