Sin dai tempi più remoti, la castagna, ha rappresentato uno dei frutti più preziosi, cibo “privilegiato” di sostentamento e di sopravvivenza, per intere generazioni.
Nell’antica Roma, il primo a menzionarla, fu Varrone (I° sec. avanti Cristo), mentre nel secolo successivo, Plinio il Vecchio, mostra già di conoscerne sette varietà coltivate anche se si continuava a considerarla un “frutto selvatico”, di scarso utilizzo.
Dopo un altro secolo, il medico Galeno riferisce che “sono le principali fra tutte le specie di ghiande: esse sole, tra tutte le specie di frutti selvatici, danno al corpo un nutrimento degno di memoria”.
Soltanto nel periodo medioevale comincia ad essere conosciuto l’albero di castagno come fornitore di “cibus suavissimus”, tanto da essere prevista una ammenda in caso di danneggiamento del prezioso arbusto. Si nota, nella legge stilata nel 643, dai Longobardi, l’Editto di Rotari: “Se qualcuno taglia un castagno, un noce, un pero o un melo, paghi un soldo di multa”. In effetti, sarà solo nei secoli centrali del Medioevo che la coltivazione del castagno si diffonderà su ampia scala, su vaste aree territoriali, divenendo importante fonte di sussistenza.
Tra l’XI ed il XIII secolo, l’espansione dei castagneti da frutto non cessa di avanzare in tutta l’area appenninica, dall’Emilia alla Toscana, dall’Umbria al Lazio alla Campania. L’economia silvo-pastorale, che nei primi secoli medioevali aveva visto prevalere forme d’uso naturale del bosco, ossia attività di caccia e di allevamento brado, lascia il posto ad un tipo nuovo di economia boschiva sempre più simile a vere attività agricole, date le cure costanti richieste per l’impianto e la manutenzione dei castagneti.
Ciò comporterà, sul piano alimentare, una crescita esponenziale dell’utilizzo della castagna ed una sua costante “riutilizzazione” con la trasformazione del frutto intero, in farina ed in pane. La castagna, a questo punto, diventerà il vero rimpiazzo del pane, laddove questo non si riesca ad ottenere, meritandosi l’appellativo di “pane d’albero”.
Bonvesin da la Riva, siamo nel 1288, scrive a riguardo agli usi alimentari dei contadini lombardi: “molte volte [le castagne] si masticano senza pane, o anzi, al posto del pane”. Così pure in uno statuto toscano del XV° sec. si legge che “le castagne sono il pane della povera gente”.
Attestazioni come queste si fanno sempre più frequenti nei secoli successivi con l’aggravarsi delle condizioni alimentari dei ceti poveri. Un poemetto anonimo della fine del ‘500, descrivendo i costumi e le dure condizioni di vita degli abitanti dell’Appennino toscano, afferma che lassù “il pan è di castagne”. Nel XVIII secolo l’emiliano Giacomo Castelvetro avverte che “migliaia de’ nostri montanari di questo frutto si cibano in luogo del pane, il quale o non mai, overo di rado, veggono”.
Anche sul piano dietetico, si notava già all’epoca, una certa somiglianza fra castagna e grano. Pier de’ Crescenzi, il più importante agronomo italiano del Medioevo, riprende opinioni espresse nei trattati di medicina e di dietetica: la castagna “è di buono nutrimento” e “proxima granegli del pane”.
Il castagno, così, diventa ben presto la risorsa primaria di tante comunità montane, vera pianta di civiltà attorno a cui ruotano la vita e la cultura locale. Il sapere tecnico per l’impianto e l’allevamento dei castagni si trasmette con l’esempio e con la pratica, ma viene anche messo per iscritto. I contratti con i coltivatori talvolta indicano con estrema precisione le operazioni da svolgere.
Grandi attenzioni sono dedicate al castagneto e alle castagne negli Statuti delle comunità rurali, collettivamente impegnate nella difesa e valorizzazione di questa preziosa risorsa. Appositi funzionari, talvolta compensati in natura, ossia in misure di castagne, sono incaricati di sorvegliare le selve e di proteggerle dai danneggiamenti che uomini o animali potrebbero arrecare. Inoltre, il pascolo sotto gli alberi è rigorosamente disciplinato e, in certi periodi dell’anno, proibito. Per operazioni di raccolta ci si deve attenere alle date stabilite dal governo comunale, che debbono valere per tutti; idem per i divieti, severissimi, ai quali bisognava dare ascolto.
Gli Statuti comunali di Sambuca, siamo nell’Appennino tosco-emiliano, vietavano ai porcari di farsi trovare con i loro animali nei castagneti o nei vicini querceti finchè il comune non avesse proclamato ufficialmente la fine della raccolta – abandonamentum: dopo, si poteva pascolare e ruspare, ossia spigolare sotto gli alberi. Lungo la strada che scendeva a valle, i porcari potevano condurre gli animali solamente dieci giorni dopo la caduta delle castagne, tenendoli bene in branco ed evitando che uscissero dal tracciato viario oltre dieci braccia. A loro volta, i proprietari dei castagneti si impegnavano a raccogliere le castagne prima che transitassero i porci. Le date di accesso e di transito degli animali cambiavano da luogo a luogo, secondo i tempi di raccolta, che in certi casi si prolungavano fino a tutto dicembre.
Sul piano strettamente alimentare, dai tempi più remoti, i poveri avevano imparato a macinare le castagne secche ed a trarne sfarinati da impiegare in aggiunta alle più pregiate e maggiormente costose farine di cereali, nelle preparazioni di zuppe, farinate, polente, focacce e castagnacci, con il risultato altamente utilitario di riempire di massa lo stomaco: rimedio senza dubbio efficace a calmare i morsi della fame ma non abbastanza ad assicurare il necessario apporto proteico.
Le castagne intere o fresche o relativamente fresche, considerata la loro notevole conservabilità, solo raramente si mangiano crude e quasi sempre arrostite, le “caldarroste”, o bollite di norma aromatizzandole, durante la cottura, con foglie di alloro o semi di finocchio o rametti di mirto.
Oggi, lasciati i tempi cupi e bui della fame e della carestia, la castagna non ha più la funzione originaria di cibo integratore dell’alimentazione quotidiana, in qualche caso, addirittura sostitutivo del pane. Oggi rimane l’ingrediente principale di moltissimi piatti della tradizione locale, la sposa umile di tanti piatti rustici, accompagnati a buon vino rosso, da gustarsi nelle serate fredde, davanti al fuoco di un camino.
Ricordiamo, fra le numerose ricette popolari che hanno come ingrediente, la farina di castagne: i “necci” che sono frittelle dolci accompagnate spesso da formaggi molli come ricotta o stracchino; la “pattona” che non è altro che una polenta soda di castagne; il “castagnaccio”, una torta molto gustosa di farina di castagne tipica delle zone appenniniche di Piemonte, Liguria, Toscana, Emilia e Romagna.
Frequente era l’utilizzo della castagna anche nella preparazione di zuppe nutrienti, prima dell’avvento della patata. Una zuppa di frequente preparazione era quella veniva preparata al monastero toscano di Camaldoli, con lo scopo di saziare bisognosi e pellegrini in viaggio.
Oggi, oltre ai piatti più squisitamente tradizionali, si possono gustare i prelibati “marrons glacés” e moltissimi tipi di pasta, fatta con la farina di castagne, ideali anche per chi è intollerante al glutine, ma non vuole rinunciare ad un primo piatto gustoso.
CASTAGNACCIO TOSCANO
Ingredienti:
• farina di castagne (350 gr);
• uvetta (80 gr);
• zucchero (30 gr);
• acqua fredda (500 ml);
• acqua tiepida (1 tazza);
• pinoli (100 gr);
• olio extravergine di oliva (8 cucchiai);
• rosmarino fresco (1 rametto);
• noci (2);
• sale (1 presa).
Procedimento:
Mettere in ammollo, in una ciotola, l’uvetta nell’acqua tiepida e, in una tazzina, mettere ad aromatizzare 4 cucchiai di olio con aghi di rosmarino.
In un pentolino, su fuoco bassissimo, aromatizzare gli altri 4 cucchiai di olio con gli aghi di rosmarino per qualche minuto.
In una pirofila versare l’acqua fredda e unire una presa di sale, i 4 cucchiai d’olio aromatizzati a caldo, la farina di castagne setacciata a poco alla volta.
Ora, sbattere con la frusta fino ad eliminare eventuali grumi di farina. L’impasto ottenuto deve essere liscio, denso, omogeneo e senza grumi.
Unire all’impasto gli aghi di rosmarino, i gherigli di noci finemente tritati e amalgamare il tutto, versando altra acqua se necessario. Aggiungere 80 gr di pinoli, 70 gr di uvetta strizzata e asciugata, e amalgamare bene.
Ungere un’ampia teglia quadrata con un po’ dell’olio messo nella tazzina e aromatizzato al rosmarino, versarvi dentro il composto, distribuendolo uniformemente.
Spolverare la superficie con gli aghi di rosmarino, l’uvetta e i pinoli avanzati e condire con la parte di olio ancora disponibile.
Tradizionalmente, il composto non dovrebbe essere alto più di 1 centimetro.
Riscaldare il forno a 180 gradi e infornare per 40-45 minuti.
Togliere dal forno quando si sarà formata una “crosticina” sulla superficie.