Solo tardi ho appreso che lo stazionamento di musicanti con strumenti e con (oppure senza) altoparlanti, nelle strade, nelle piazze, nei larghi, e nei vicoli della città, o anche nei cortili dei caseggiati delle zone a forte densità di popolazione, si chiamasse “’a pusteggia”.
Fu quando, nella primavera del 1995, la casa editrice Newton-Compton cominciò a pubblicare “Napoli tascabile” la serie di opuscoli a 1000 lire il volume, distribuiti poi nelle edicole con cadenza settimanale come si fa coi rotocalchi. Anch’io ne acquistai alcuni, che ora sono rimasti a casa mia e ogni tanto mi ritornano sotto gli occhi. Tra essi c’è “I posteggiatori napoletani” di Mimmo Liguoro, giornalista Rai. Così ho scoperto quest’altro significato dei termini: “posteggiatore” e “posteggia”.
I “posteggiatori”, fino a quel momento, per me erano i guardamacchine dei parcheggi pubblici (tecnicamente: incustoditi), di fatto custoditi da questo tipo di personale, volontario avventizio (i liberi posteggiatori) che in cambio del servizio chiedevano (e chiedono, ove resistono) un piccolo contributo.
Mentre la “posteggia” era stata fin allora, per me e per i miei coetanei accomunati dalla stessa parlata gergale, la pratica del corteggiamento a tecnica stanziale: restare cioè impalato, sempre fisso nello stesso posto, davanti al portone o sotto al balcone della fortunata innamorata. O, in una diversa accezione, l’attesa nel luogo fissato per l’appuntamento, dove sempre impalato si aspettava il (o la) solito ritardatario di turno.
Quelli che a Napoli erano detti “posteggiatori” nella accezione classica, nuova per me, nel nostro piccolo centro di provincia erano chiamati concertini ambulanti, cantanti, o musicanti. Qualcuno li nominava anche straccia-facenne (rigattiere, cenciaiolo). Ma credo che la realtà poi al di là del nome, fosse sempre quella, anche se noi “provinciali” dimostravamo di possedere un lessico più diretto e meno sofisticato di quelli della città.
Forse, un’altra differenza era che i suonatori di Napoli – e rimarco il “forse” – avevano più professionalità e più sicurezza economica per il mantenimento delle famiglie. Mentre da noi, in provincia, più che una prestazione artistica, o una manifestazione di folklore legata ad una tradizione locale, il gesto era percepito come forma di raccolta di elemosina, per non dire (in tono bonario) vero e proprio accattonaggio: occasione di incrementare le entrate che non erano mai sufficienti per chi non aveva altra fonte di reddito.
Ma questa attività restava un’occupazione straordinaria e provvisoria, che doveva durare giusto il tempo della disoccupazione (che alla fine dei conti si rivelava lunghissimo, fino a rendere permanente il mestiere), nell’attesa di trovare un lavoro più sicuro. Specialmente negli anni del Dopoguerra. Tuttavia quella provvisorietà legata all’evoluzione dei tempi comportò che col passar degli anni si riducesse la presenza dei posteggiatori, e scomparve del tutto nel periodo del cosiddetto boom economico, quando, migliorate le condizioni economiche generali si affermarono i complessi vocali e strumentali giovanili, meglio strutturati, seppure ancora di tipo dilettantistico e precario, fino all’affermazione del mezzo televisivo.
Ma prima di essere soppiantati del tutto dai complessi giovanili, i posteggiatori, eredi di una lunga tradizione, dal 1946 fino a circa il 1960 circolavano ancora, e venivano richiesti anche per feste e ricorrenze di famiglia.
Così a mano a mano che essi si riducevano di numero, perché, musicisti o non musicisti, una volta inseriti nel mondo del lavoro (quello normale per intenderci!), lasciavano l’attività, i pochi posteggiatori superstiti, da soli o in coppia, si mostravano sempre i più approssimativi sul versante delle prestazioni “artistiche”.
Sicché agli inizi degli anni ’70 a Torre Annunziata era rimasta in circolazione una sola coppia di posteggiatori, che in maniera itinerante, senza più “posteggia” (la scelta della postazione fissa: ‘o puosto, da cui il nome), chitarra e tamburino, giravano per le strade della città, ma anche dei centri confinanti, a chiedere l’elemosina. Non ricordo più se i loro strumenti producessero vere melodie o si limitassero esclusivamente a ripetere ritmi monotoni, noiose tiritere, inutili percussioni e ripercussioni assordanti e ridondanti, costanti nella loro circolarità ritmica, con qualche semplice variazione di crescendo, e qualche ricercatezza di barocca voluta in chiusura.
“Nicola e Polichetti” – il nome del “complesso strumentale” – divennero così i nostri beniamini. Finché gli diventammo amici. E se Nicola, seppure con qualche dubbio, poteva sembrare il nome di battesimo del personaggio, Polichetti – pochi sapevano che era un cognome – era ritenuto il soprannome del secondo soggetto. Comunque quel “duo canoro”, pur non avendo fatta troppa fatica a sceglierselo, si ritrovò un bel nome d’arte, proprio da professionisti per essere un complesso musicale. Alla fine Nicola trovò un lavoro, saltuario, a giornate, da muratore. E Polichetti restò solo a svolgere la raccolta delle offerte, e da solo continuò a girare per le strade della città a fare la questua.
Probabilmente cercavano di mantenere quel minimo di continuità (il mercato, come si dice oggi) per far sì che nelle giornate in cui Nicola non era chiamato a lavorare, entrambi, riprendessero senza troppe difficoltà la normale attività da essi abitualmente svolta prima.
Mantenevano la piazza; insomma cercavano di conservare la clientela; ora che il loro esercizio era avviato cercavano di reggere il mercato. Ciononostante, le condizioni economiche non miglioravano di molto.
Eppure c’era un aspetto che rivelava la stretta solidarietà dei due: la piena ed equa ripartizione del ricavato, una condivisione senza riserve e senza alcuna clausola contrattuale. Nicola sul cantiere, e Polichetti in giro per le strade col suo tamburo a raccogliere l’elemosina. E che di elemosina si trattasse lo rendeva evidente il fatto che le persone neppure ascoltavano più il ritmo del tamburo, orfano della chitarra, che si limitava alla esclusiva funzione di richiamo, riducendosi ad una vera e propria rottura di …timpani.
Il povero Polichetti faceva quello che poteva. Strimpellava, o meglio percuoteva, al ritmo di marcetta, tambureggiando. E raccoglieva quello che gli offrivano. Ma mentre il guadagno di Nicola in qualche modo era noto e perciò prevedibile, e in un certo senso maggiormente controllabile anche se era ancora senza busta-paga, il ricavato di Polichetti era completamente aleatorio, instabile, senza nessuna possibilità di previsione. Ciò dava sconforto al povero Polichetti: sconforto che si potesse dubitare della sua lealtà, talché lo portava talvolta a rinunciare al suo giro.
D’altra parte questo fatto – non che Nicola dubitasse dell’onestà dell’amico (e della fiducia che egli gli corrispondeva) – metteva Nicola nella condizione di sospettare che Polichetti rientrasse dalla questua in anticipo, proprio perché sfiduciato dal modesto raccolto. Allora d’accordo, com’erano sempre stati in tutto, decisero di fare uscire col tamburo sui fianchi, legato nella vita da una catenella di ottone; e questa fissata con un lucchetto, la cui chiave nel corso della giornata era custodita da Nicola.
Nessuno stupore per le persone che lo incontravano durante il servizio. Molti neppure si accorgevano della novità. Altri pensavano che quell’espediente fosse stato adottato per lasciare libere le mani onde governare più comodamente le bacchette che roteavano nell’aria; o, anche, per dare semplicemente stabilità al tamburo.
I due soci continuarono ad essere amici indivisibili, anche se uno aveva famiglia e l’altro era scapolo. Per chi non li conosceva personalmente, sembravano addirittura due cognati. Perché solo la presenza di una donna forte, economa, legata a entrambi da una comune sorte, poteva più facilmente spiegare la perfetta riuscita di quel sodalizio.
La sera, dopo il rientro dell’uno e dell’altro dai rispettivi lavori, liberato Polichetti dal lucchetto del tamburo che lo aveva obbligato l’intera giornata, controllato l’incasso, si recavano al bar del dopolavoro ferroviario per un caffè o una cioccolata, due chiacchiere e una partita a carte. Non so per quanto tempo durò questo comportamento.
Ricordo che negli ultimi tempi, quando di sera venivano al bar del dopolavoro, a chi gli chiedesse come era andata la questua quel giorno, Polichetti, purché si trattasse di amici e che la domanda fosse formulata seriamente e senza intenti canzonatori di sfottò, rispondeva: “Beh! ‘A musica è leggera, e si fa pesante…”.