Camino, comune piemontese di 810 abitanti della provincia di Alessandria.
Camin, in piemontese, ha origini remote: i primi insediamenti sul territorio risalgono probabilmente al tempo dei Romani. Il toponimo Camino, che si trova per la prima volta in un documento del 1151, ha radice italico/latina. Caminus forse proviene da “camo”, fornace, perchè qui si fondeva il minerale da cui si estraeva l’oro, ricercato nelle aree vicine all’abbazia di Lucedio. La storia è in ogni caso legata ai Marchesi Scarampi. Antico possesso dei vescovi di Asti e, successivamente, dei marchesi del Monferrato, il feudo passò agli Scarampi di Villanova, ricchi banchieri astigiani, nel XIV secolo.
L’imponente castello è la testimonianza più imponente del potere assunto dalla famiglia sul territorio, benchè la storia della casata abbia conosciuto momenti tragici come l’uccisione di Scarampo, nel 1434, per mano del governatore di Casale Monferrato Costantino Aranite, deciso a punirne i frequenti atti di prepotenza a danno dei feudi limitrofi. Il castello venne cinto d’assedio e neppure la richiesta di grazia inoltrata dalla moglie di Scarampo, Camilla, sortì effetti. L’uomo venne decapitato e la moglie si suicidò gettandosi dagli spalti. Gli Scarampi mantennero la proprietà del castello fino agli anni ’40 del 1900. Il castello è una struttura difensiva risalente all’anno 1000; ampliato fino al XVIII secolo, fu sede di soggiorno per diversi esponenti di Casa Savoia. Fa parte del gruppo dei “Castelli Aperti” del Basso Piemonte.
Ogni anno a maggio Camino partecipa alla manifestazione “Riso e Rose”, con l’esposizione di mosaici d’artista realizzati esclusivamente con chicchi di riso. La mostra, denominata “Risalto”, si svolge nel secolare parco del castello. Camino è noto per essere il paese di Giovanni Battista Boetti: secondo la tradizione sarebbe il profeta Mansur, leggendario frate missionario che nel 1700, trasferendosi in Medio Oriente, diventò capo di un esercito islamico che cercò di sfidare la grande Caterina II di Russia.
L’attuale centro di Duronia arroccato su una roccia, sorge sull’antico tratturo Lucera – Castel di Sangro a 918 metri sul livello del mare. L’antico abitato è sulla vetta di un monte, le cui falde hanno a rinforzo i cosiddetti “Morconi di Lauro”, superbi ed eretti macigni alla cui sommità si adergono i “Morconi di S.Tommaso”, che fanno scolta alla chiesa parrocchiale.
L’agro è stupendo: disseminato di costruzioni rurali, alcune in attività, altre abbandonate ma ancora denotanti le tipiche caratteristiche delle dimore rurali della fine ‘800 inizio ‘900. Sui tratturi sono ancora visibili i resti di rocche sannitiche, che esercitano un grande fascino sui visitatori. A ricordo delle spedizioni stagionali della transumanza si organizzano, ogni anno, passeggiate a piedi sui percorsi tratturali. Il centro abitato conserva nel nucleo più antico caratteristiche prettamente medievali. Paese di emigrazione, in cento anni ha perso 2000 abitanti partiti per il lavoro all’estero. È passato da 2600 abitanti a circa 600 attuali. Il paese si rianima d’estate, allorché si festeggia San Rocco e vengono organizzate vivaci sagre paesane durante le quali si mangia il piatto tipico: le “Laganelle”, tagliatelle fatte in casa con pasta all’uovo e lo “squattone”, pasta con il vino.
Il nome antico del paese è Civitavecchia, “Civile veteris” o “Civitatis vetule” nel la-tino curiale o “Civitavetula” nel secolo XVI. Fra il 1755 e il 1760, quando furono scoperte pregevoli tombe, iscrizioni lapidarie e monete attestanti la remota preesistenza di un cospicuo centro urbano, si confermò il convincimento che lì sorgesse la “Duronia” dei Sanniti, che Livio dice espugnata dal console Lucio Papirio Cursore, console romano, nell’anno di Roma 459 (293 a.C.). Il motivo fu anche che l’agro è percorso dal torrente Durone, nel cui nome si ravvisa l’eco perpetuata del nome dell’antica città. Il consiglio comunale chiese quindi, nel 1875, ottenendolo, il permesso di mutare il nome di Civitavecchia per quello di Duronia.
Il paese, Scalepranu in sardo, è situato in una regione collinare alle ultime propaggini meridionali del Gennargentu. Nel primo documento rinvenuto, il paese è chiamato Scala de Pla (no) dal luogo nel quale è situato, l’accesso a Su Pranu. Per la leggenda il centro era conosciuto con il nome di Escall ‘e Oru” ovvero scala d’oro, da un’antica scala d’oro appartenente ad una famiglia nobile e ritrovata nel territorio. Il territorio si caratterizza per le numerose presenze archeologiche appartenenti ad epoche diverse, che vanno dal Neolitico, come i nuraghi sparsi nel territorio, i pozzi sacri di “Is Clamoris” e le domu de janas di fossada, alla dominazione romana, all’alto Medioevo.
Il centro storico presenta, perfettamente intatti, esempi di architettura tradizionale in pietra, tra i quali i caratteristici archi. Deve essere sicuramente citata la parrocchia di San Sebastiano, che rappresenta un raro esempio di costruzione rinascimentale piuttosto rara in Sardegna. La facciata della chiesa è in stile Gotico Aragonese con prezioso rosone con traforo a raggiera e fregi floreali. L’interno ha la volta a botte retta da archi a tutto sesto e da pilastri in pietra. Nel comune si svolgono ancora le tradizionali feste popolari, tra queste le più importanti sono: la festa di San Sebastiano (20 gennaio); la festa della Candelora (2 febbraio); dell’Assunta (il 15 agosto); Ognissanti (1 novembre).
Da non dimenticare le sagre, tra le quali merita citazione la Sagra di Olio di Lentisco a maggio. In paese trionfa la grandiosa costruzione della diga sul Flumendosa, che i romani chiamavano Saeprus, che coincise con il massimo sviluppo demografico. Progettata nel 1945 per evitare le disastrose piene che causavano gravi danni alle colture e agli abitati di San Vito, Villaputzu e Muravera, fu inaugurata nel 1958. È alta 120 metri, ha una capacità di invaso pari a 290 milioni di metri cubi, strozza il Flumendosa nella direzione del Nuraghe Arrubiu e forma un invaso che si allunga per 17 chilometri.