Il primo italiano a trionfare all’All Star Game, il primo italiano a scendere in campo in una Finale Nba. Marco Belinelli ha letteralmente riscritto la storia del basket italiano con la maglia dei San Antonio Spurs nel corso di una stagione giunta al suo ultimissimo atto.
Uscendo dalla panchina, mormorerà qualcuno, con Parker, Ginobili e Duncan ad attirare le attenzioni delle difese avversarie, bofonchierà qualcun altro, con numeri tutto sommato normali denuncerà il più restio ai complimenti. Tesi assolutamente inconfutabili che però non possono e devono sminuire ciò che di straordinario è riuscito e sta riuscendo a fare il piccolo grande uomo di San Giovanni in Persiceto.
Perché diciamoci la verità, nel variegato mondo del basket italiano tutti si sarebbero aspettati di vedere a questi livelli Andrea Bargnani, entrato nella Nba con la prima chiamata assoluta (correva l’anno 2006), e Danilo Gallinari, la grande stella e speranza della pallacanestro tricolore messa ko da un brutto infortunio al ginocchio.
Ed invece, il più normale, il meno dotato fisicamente e per certi versi tecnicamente, del magico tridente azzurro, ha saputo prima di tutti scrivere il suo nome nello straordinario firmamento dello sport professionistico americano arrivando a disputare la finalissima per l’anello contro sua maestà Lebron James e i bicampioni Nba dei Miami Heat: “Devo ammettere che nel mettere il piede in campo per la prima volta in gara 1 di Finale, varie emozioni hanno preso il sopravvento in me – ha dichiarato Marco Belinelli al termine della prima sfida con Miami – è stato fantastico provare una sensazione che da bambino avevo sognato a lungo.
Poi però, una volta in campo ho provato ad azzerare il lato emotivo provando a giocare nella maniera più tranquilla possibile, attaccando quando c’era da attaccare e tirando quando c’era lo spazio. È andata bene anche se c’è ancora tanto da migliorare in vista delle prossime sfide”.
Nove punti frutto di un 2/3 dalla lunga distanza ed un 3/4 ai liberi conditi da 2 rimbalzi e 1 assist in 18 minuti di impiego (terzo giocatore più utilizzato uscendo dalla panchina dopo Diaw e Ginobili), alla faccia del-la timidezza e di quel rispetto di ruolo e schemi che il buon Marco ha mostrato, come nel corso della stagione regolare, in una partita che di regolare ha avuto ben poco. Anche e soprattutto per via del guasto all’impianto dell’aria condizionata che ha trasformato l’AT&T center di San Antonio in un vero e proprio forno incandescente: “Faceva davvero molto caldo – ha ammesso Belinelli – non ho mai bevuto tanto durante e dopo una partita. L’aria era pesante ed ogni sforzo finiva col pesare il doppio, fortunatamente l’adrenalina e la tensione da Finale ci ha permesso di dare il massimo facendoci un tantino estraniare da quella situazione ai limiti della praticabilità”.
Memorabile il primo canestro dal campo messo a referto nel corso del secondo quarto quando Belinelli, scivolando come da copione Spurs nell’angolo sulla penetrazione al centro di Diaw, ha letteralmente mandato in visibilio il pubblico texano andando a segno con il piatto forte della casa: il tiro da tre, specialità in cui si è imposto a febbraio nel corso dell’All Star Weekend: “È stato essenziale attaccare da subito il canestro perché sono riuscito a mettermi in ritmo e soprattutto a caricarmi in termini di fiducia.
Dopo i due liberi iniziali e le due bombe consecutive ho giocato in scioltezza riuscendo a prendere a cuor leggero quelle che negli Usa amano definire quick decision”.
Adesso però arriva il bello: confermarsi su grandi livelli contro King James per provare a coronare una stagione da favola con un anello Nba.
Sarebbe la ciliegina su una torta che il ragazzo di San Giovanni in Persiceto sta farcendo dal mese di ottobre.